Mentre continuano le ricerche della quinta vittima nel cantiere Esselunga, Dario Salvetti spiega a cosa servono gli appalti: «a disumanizzare, renderci irriconoscibili tra di noi»
Nel cantiere nell’ex Panificio Militare, a Firenze, si mettono in sicurezza le travi di cemento crollate, dal peso di tonnellate, e si cerca ancora il quinto cadavere dentro il cantiere di via Mariti a Firenze, il marocchino Bouzekri Rachimi, 56 anni, l’ultimo disperso, giorno e notte, oltre 48 ore dopo il cedimento strutturale nella costruzione del supermercato Esselunga in un’area già demaniale che gli abitanti avrebbero desiderato adibita a tutt’altro. I vigili del fuoco agiscono con le gru – ne è arrivata una terza- fanno alzare un drone, operano con le Usar (dalla definizione inglese Urban Search and Rescue traducibile in “ricerca e soccorso in ambiente urbano” e definisce l’insieme delle pratiche utilizzate per le operazioni di ricerca e soccorso di persone sepolte da macerie in caso di crolli di edifici e strutture, esplosioni o di eventi sismici), rimuovono il cemento crollato, avanti così finché sarà necessario.
L’Ansa parla di inchiesta per omicidio plurimo colposo, ne magnifica l’approccio multidisciplinare, dagli aspetti tecnici alle condizioni dei lavoratori. In queste ore l’inchiesta starebbe prendendo forma con la distribuzione delle deleghe alla polizia giudiziaria. Viene fatto il censimento delle decine di ditte nel groviglio di subappalti che riportano al vertice della Aep di Pavia, l’impresa capofila, la stessa responsabile di un cantiere gemello, a Genova, nel quartiere di San Benigno teatro di incidenti avvenuti lo scorso anno. Aep, Attività Edilizie Pavesi, lavora per conto di La Villata Spa, immobiliare partecipata al 100% da Esselunga, presieduta – grazie ai buoni rapporti con Marina Sylvia Caprotti, la figlia del fondatore di Esselunga – dall’ex ministro Angelino Alfano. Esselunga ha acquisito l’intera società pochi mesi fa acquistando il 32,5% che era posseduto da Unicredit al prezzo di 435 milioni. Ex delfino di Silvio Berlusconi, Alfano è stato ministro della Giustizia nel governo Berlusconi IV e ministro dell’Interno dei governi Letta e Renzi.
Ma è davvero colposo un delitto che avviene nell’intrico di subappalti, contratti e lavoro nero? Ne scrive Dario Salvetti, del collettivo di fabbrica dei lavoratori ex Gkn, che è anche Rsu della Fiom:
Ad oggi quello che sappiamo è che in un fazzoletto di cemento – stiamo parlando di un supermercato – erano presenti 35 ditte e 60 subappalti. Sappiamo che la prima ipotesi – tutta da verificare, va da sé – non è che ci sia stato un cedimento dei materiali, ma un errore “di processo”. Una delle ditte avrebbe iniziato la colata di cemento quando un’altra non aveva ancora fissato la trave. Ragione per cui “sotto la lente degli inquirenti è finita proprio la complessa filiera di appalti e subappalti” (Ansa).
35 ditte, 60 subappalti, sono un inno all’errore, allo spreco, all’inefficienza. Una simile giungla è prima di tutto incompatibile con la fluidità del processo produttivo. È una moltiplicazione inutile di direttive, piccole gerarchie, spese amministrative. Un sistema che si autoproclama tendente alla massima efficienza dovrebbe tendere alla semplificazione.
Il punto è che in questo sistema obiettivo del lavoro non è il lavoro di per sé, non la sua materialità, non la sua qualità. L’ obiettivo è la profittabilità del lavoro. E ciò che appare inefficienza, in verità è il meccanismo necessario alla realizzazione del massimo profitto. E ciò che appaiono costi inutili, sono in verità un investimento con il suo ritorno ben calcolato.
Si investe consapevolmente sullo spezzettamento del lavoro. Questo non solo garantisce salari più bassi oggi, ma li garantisce domani e dopodomani. Non solo garantisce di comprimere il numero di assunzioni, ma spezza alla base il concetto stesso di contratto a tempo indeterminato, giacché di fatto ogni rinnovo di appalto è potenzialmente una perdita di lavoro.
Ancora più di questo, ciò che l’appalto produce è una maggiore difficoltà a conoscere il processo produttivo, il diritto contrattuale. E più di ogni altra cosa produce una difficoltà a conoscersi e riconoscersi tra pari. In poche parole, è un potente strumento di disumanizzazione.
Chiunque abbia mai lavorato a contatto con appalti non può non avere notato lo strano funzionamento della psicologia umana. Non solo dove la prestazione è saltuaria, ma anche quando si tratta di lavoratrici/lavoratori che lavorano quotidianamente sotto lo stesso tetto, contribuendo alle diverse funzioni necessarie per la riuscita del lavoro, fissi, precari, appaltati, subappaltati tendono a non riconoscersi come parte di una unica funzione.
Giacchette diverse, contratti diversi, punti di accesso diversi, diritti basilari negati per alcuni – come lo spogliatoio o la mensa ad esempio – che diventano privilegi ad occhi di altri, direttive diverse, contrastanti, scarica barile continuo tra livelli decisionali lasciando poi spesso i lavoratori a prendersela tra di sé: tutto questo a discapito di qualsiasi basilare logica dell’organizzazione del lavoro, ma perfettamente in linea con quella del massimo profitto da trarre dal lavoro.
Primo e fondamentale obiettivo: disumanizzare, renderci irriconoscibili tra di noi.
Ora tutti si indignano. Ma provate voi a fare una trattativa con qualsiasi direzione aziendale per una reinternalizzazione di una portineria, di una mensa, di un servizio di pulizie, senza essere guardati come dei piccoli insurrezionalisti.
Che poi questa è la differenza fondamentale. Noi restiamo umani, o almeno ci proviamo, sempre, in ogni cosa che facciamo. Deriviamo la nostra idea di ciò che deve essere un “sistema” dalla materialità della vita, del lavoro, dei molteplici bisogni del nostro corpo e della nostra testa.
Questo è un sistema disumano, che ha bisogno di disumanizzare. E copre la propria ipocrisia dando un nome solo ai morti.
Si conosce i nostri nomi, quanti figli abbiamo, da quale paese arriviamo, solo quando veniamo estratti dalle macerie, in pace come in guerra. Che poi per la nostra classe la pace è solo una guerra con intensità diversa e la ripresa solo una diversa gradazione della crisi.