Giustamente il mondo, forse una parte consistente, forse non tutto ma quasi, si indigna perché a Gaza i bambini letteralmente muoiono di fame oltre che per le bombe e le pallottole israeliane. I palestinesi uccisi dallo Stato ebraico dal 7 ottobre ad oggi sono ormai oltre trentumila e cinquecento. I feriti oltre centomila. I morti per altre concasue, malattie, fame, non si sancora. Ma, secondo l’ONU e le organizzazioni non governative, che Netanyahu e Gantz includono nella lista dei fiancheggiatori di Hamas, la catastrofe umanitaria non deve arrivare. C’è già.
La fame è un arma. Come la segregazione. Come la sete, come la mancanza di elettricità per gli ospedali. Non parliamo poi dei bombardamenti diretti sui campi profughi, sulle ambulanze, sugli stessi nosocomi: triste la vicenda dello Shifa, a parere di molti il più attrezzato ospedale di Gaza. Pieno di sfollati da case ridotte in macerie. Pieno di crateri dei missili, di corpi saltati per aria, di mura crivellate dai proiettili. L’avanzata israeliana non esiste più, perché non c’è più un centimetro di terra a Gaza nelle mani di Hamas.
Il gruppo terroristico resiste nel sud della Striscia e, comunque, rimane un enorme problema per Israele che non riesce a liberare gli ostaggi, che spesso finisce per ucciderli con fuoco amico, che porta avanti una guerra necessaria ad un primo ministro in completa rovina politica. Lo Shifa era divenuto, secondo Netanyahu e il suo governo, la base operativa di Hamas che vi si nascondeva al di sotto e nei pressi. Un po’ come per le armi di sterminio di massa di Saddam Hussein, mostrate da Colin Powell all’ONU nella famosa iconica provetta, la grande sparata propagandistico-militare si è rivelata pure qui una bolla di sapone.
Sotto all’ospedale c’erano alcuni tunnel uguali a tutti gli altri. Ma nessun quartier generale di Hamas. La fame, dunque, è l’arma sopraggiunta con la guerra, che tutti i conflitti si portano appresso, perché le risorse mancano con i rifornimenti che non arrivano, con blocchi e sanzioni economiche che, nel caso della Russia piovono a dirotto dalle virtuose democrazie occidentali, mentre nel caso dell’aggressione israeliana a Gaza non sono nemmeno prese in considerazione da Stati Uniti e Unione Europea.
Chiunque, vista la sproporzione materiale e numerica tra l’orrore del 7 ottobre e quello successivo della guerra portata contro la Striscia e l’intero popolo palestinese (non miratamente contro Hamas), oggi non può non rendersi conto che milioni di civili palestinesi sono in una trappola da cui non si esce. Netanyahu un tempo ha sostenuto lo jihadismo contro l’ANP, un po’ come gli americani avevano fatto con quello non di matrice palestinese ma afghana in risposta all’espansionismo russo. Oggi il boomerang è tornato indietro.
Se contribuisci, da mostro, a creare dei mostri, finirà che ti si rivolteranno contro e pretenderanno la loro fetta di dominio nel mondo. E così, infatti, è stato. La storia di Israele avrebbe avuto una dignità politica e morale se avesse, dopo le guerre di aggressione dei paesi arabi, risposto non con il teocraticismo sionista che inneggia alla superiorità del popolo ebraico sugli altri, all’elezione divina dello stesso; bensì con un rapporto dialogico con ciò che rimaneva del mandato britannico in Palestina e, quindi, con una considerevole parte del mondo arabo.
La situazione di Gaza è irrapresentabile con le sole parole, con le sole cronache. Servono le immagini per mostrare le inaudite violenze di Tsahal alla popolazione: uccisioni arbitrarie, prigionieri nudi messi in fila come, prima di questa guerra, avevano fatto gli Stati Uniti in Afghanistan, in Somalia e a Guantanamo; oppure l’ISIS nella Siria e nell’Iraq occupato. Ciò che sta facendo Israele è creare la premessa affinché i palestinesi siano costretti a scegliere: morire o andarsene al di là del valico di Rafah. Che però è sigillato. Decine ed decine di tir aspettano di entrare per portare aiuti umanitari, mentre i bambini muiono di fame.
Il presidente-dittatore egiziano al-Sisi si accorda con l’Europa (e questa con lui, ovviamente) per avere un bel po’ di quattrini (7,4 miliardi di euro!) da investire nel settore energetico e per fermare le migrazioni verso il Vecchio Continente. Giorgia Meloni ha dichiarato che esiste un memorandum con il ministero della sanità egiziana per aiutare i civili in arrivo da Gaza. Apprezzabile. Però i valichi sono chiusi, nessuno entra e nessuno esce.
Sarà certamente soltanto colpa di Hamas anche in questo caso. I lanci americani di cibo, paracaduti più in mare che sulle spiagge della Striscia, hanno provato a spostare l’attenzione mondiale dal fatto che, mentre Biden manda aiuti dal cielo, via mare e via terra rifornisce Israele di armi. L’ipocrisia occidentale, come nella guerra in Ucraina, non tarda a mostrarsi e viene messa alla berlina dai continui richiami delle Nazioni Unite sul vero e proprio genocidio di un popolo. Parola indicibile. Bisogna maneggiarla con cura, certo.
Ma alla Corte Internazionale di Giustizia pende l’esame proprio sulle premesse pericolose che tutto questo sia in atto. Vogliamo chiamarlo “massacro indiscriminato“. Facciamolo pure, ma somiglia sempre di più a qualcosa di veramente enorme per un piccolo popolo costretto a sopravvivere in un minuscolo lembo di terra o tra muri e fili spinati, privato dei diritti umani fondamentali, di quelli civili e sociali, circondato da mezzo milione di coloni fanatici sionisti in Cisgiordania.
La guerra devasta Gaza, non si ferma e, per chi ha tenuto il mortifero conto, Israele ha ucciso negli ultimi cinque mesi più bambini nella Striscia che tutte le guerre nel mondo negli ultimi quattro anni. Ci sono ben più di centoquaranta conflitti aperti sul pianeta. Fate un po’ il conto di quanti bambini sono stati ammazzati dallo Stato ebraico in risposta ai fatti del 7 ottobre. Sono dati dell’ONU, non di pericolosi estremisti filopalestinesi! Ma anche in questo caso si ripeterà la giaculatoria solita: chi non sostiene appieno Israele in questa lotta è, sostanzialmente, contro Israele e magari pure un po’ antisemita.
I bambini di Gaza, quando non muiono di fame, già oggi conoscono ansia, paura, terrore, enuresi, problemi neurologici, regressioni mentali e aggressività. Tutte reazioni che evidenziano quella che Save the children ha definito “una completa distruzione psicologica” di una intera generazione di giovani palestinesi. Hamas avrà provocato nei civili israeliani attaccati nei kibbutz uguali reazioni con le brutalità commesse. Reazioni simili e forse anche più gravi avranni i civili in mano all’organizzazione islamica.
La devastazione dei corpi e delle menti è un connubio intrinseco della guerra, del terrorismo, della violenza portata con le armi dentro le case e poi dentro i corpi, fin nel loro più recondito incoscio che svilupperà una serie di insofferenze e di malesseri che segneranno per tutta la vita i milioni di palestinesi oggi prigionieri nell’inferno di Gaza.
Netanyahu guadagna consensi alle elezioni comunali e regionali, tenutesi lo scorso febbraio, ma la certificazione della sua fine politica è solo questione di tempo. Il tempo lungo della guerra. La destra colonialistico-sionista che lo sostiene pretende una amministrazione civile della Striscia per il dopo-Hamas. Si tornerebbe indietro rispetto ai piani di Sharon, obbligando quindi i palestinesi a convivere con la parte più violenta della società israeliana, quella più intransigente, quella meno propensa al dialogo. La soluzione dell’amministrazione militare non è certo migliore.
La protezione internazionale potrebbe essere una soluzione, se Israele riconoscesse all’ONU un diritto amministrativo e una autorità che, nei fatti, gli nega da molti decenni, non rispettando le risoluzioni approvate che garantivano l’esistenza dello Stato di Palestina entro i confini del 1967. Le armi hanno la meglio, perché la meglio la deve avere un’economia di guerra che è sorella gemella di una politica imperialista connaturata nella violenta espansione liberista. Le parole di Michel su un’Europa che deve tenersi pronta ad essere il prossimo obiettivo delle aggressioni russe, stabiliscono e fondano una torsione bellica della UE.
Il Medio Oriente non è poi così lontano come può sembrare, perché da quel ultramillenario crocevia di popoli passano sempre gli interessi che connettono Asia, Africa, Europa e, nell’epoca della globalizzazione totale, Americhe ed Oceania comprese. La questione palestinese, quindi, è di per sé una questione rigorosamente internazionale e non può non combaciare con gli altri fronti aperti o che si stanno per aprire. La crisi permanente di Taiwan o quella delle due Coree ne è la dimostrazione più che evidente.
Il ruolo delle organizzazioni di tutela dei rapporti tra le nazioni è ridotto ad un formalismo stanco, reso tale dal protagonismo tanto dei nazionalismi esasperati quanto delle economie che si fronteggiano in questo scacchiere veramente molto competitivo e, per questo, ferocemente complicato e complesso. L’ONU, tanto più nella criticissima situazione di Gaza, può limitarsi a dichiarare lo stato di invivibilità del Territorio palestinese occupato.
Può denunciare la fame per cui muiono centinaia di bambini. Può chiedere ad Israele, mediante risoluzioni, di cessare il fuoco, ma ciò non troverà mai una reale e concreta applicazione politica e militare. Semplicemente perché, davanti ai grandi interessi planetari che sono sul terreno della competizione multipolare, il diritto internazionale è considerato un accidente trascurabile e mostra tutti i limiti sovrastrutturali di una dipendenza dal volere dei poteri finanziari che controllano per davvero i governi delle grandi potenze mondiali attraverso una rete di commistioni tra politica e profitti che non ha nessuna intenzione di occuparsi della fame di Gaza.
Tuttavia, quello che può sembrare un moloch inamovibile, un muro di gomma impenetrabile, è di per sé la reazione furibonda, da più punti del pianeta, ad una crisi che parla prima di tutto alle grandi centrali dell’accumulazione capitalsitico-finanziaria. Non ci sono risorse per tutti nella misura in cui lo sviluppo diseguale aumenta invece che diminuire e, in particolare, se la guerra è l’ultima carta che può giocarsi l’asse politica-capiale per controllare la pseudo-stabilità del sistema.
Lo ha capito un liberista sfrenatissimo come Javier Milei che, infatti, cerca la saldatura con le classi popolari facendo credere che al capitalismo frenato da un riequilibrio sociale si debba rispondere con un capitalismo ancora più spregiudicato nell’attacco ai diritti dei più deboli, cancellando ogni parvenza di tutela pubblica. La questione palestinese, per quanto lontana possa sembrare da questi calcoli globali, è l’espressione diretta di una contesa fintamente regionale e locale. Israele e Hamas ovviamente lottano per le reciproche esistenze ed egemonie politiche e sociali.
Ma tutto intorno sta la fitta selva di interessi che va dai frantumati accordi di Abramo alle relazioni con gli Stati Uniti d’America e persino con la Russia di Putin. Mentre i droni colpiscono il deserto che Gaza è diventata, il cinismo di una politica disumana ha la meglio sui tentativi diplomatici, sull’ONU, sulle parole di papa Francesco. La guerra finirà. Ma non per stabilire la pace tra due popoli. Soltanto per creare una sorta di purgatorio delle incoscienze su cui verrà costruito un finto status quo a favore soltanto dei vincitori. Immorali e incivili, e tuttavia celebrati come “democrazia” del Medio Oriente.