Riceviamo e pubblichiamo
Claudio Gatti
Dare risposte, non sollevare dubbi. Indicare i responsabili di un atto criminoso o corruttivo, non lanciare accuse alla cieca. Scrivere ciò che è vero o accertato, non verosimile o plausibile. È così che, 46 anni fa ho imparato il mestiere di giornalista investigativo nell’America del post-Watergate, dove mi trasferii nel lontano 1978, cioè appena quattro dopo che due giovanissimi cronisti avevano costretto l’uomo più potente della terra, Richard Nixon, a dimettersi dalla Casa Bianca. Non lo avevano fatto pubblicando documenti processuali bensì parlando con testimoni, cercando evidenze e incontrando “gole profonde” nei garage sotterranei. Successivamente, proprio Carl Bernstein fu tra coloro che mi insegnarono come meglio utilizzare il Freedom of Information Act, o FOIA, la legge che negli USA concede accesso agli atti governativi.
È per questo che nel 1989, quando il caporedattore all’Europeo chiamò la redazione di New York, dove lavoravo come corrispondente dagli USA, per chiedermi di occuparmi della strage di Ustica mi misi al lavoro come avevo imparato da Woodward e Bernstein: con una mia indagine partita da zero che non durerà settimane né mesi, bensì anni. Ho letto carte, rintracciato testimoni, trovato periti e consultato esperti di ogni genere e settore – dall’ingegneria aeronautica alle operazioni clandestine – intervistando centinaia di persone in una dozzina di Paesi del mondo.
Nei nove anni che erano allora già trascorsi dalla strage, in Italia erano state avanzate tre ipotesi ed erano stati dipinti quattro scenari. La prima ipotesi – che il DC-9 fosse stato oggetto di un cedimento strutturale – fu sconfessata poco dopo “l’incidente”. La seconda – che si fosse trattato di una bomba esplosa a bordo – fu contraddetta da una serie di fatti incontestabili: il ritardo di due ore della partenza del DC-9, la mancanza di qualsiasi danno da esplosione interna, i tracciati radar che indicavano la presenza di un caccia in manovra d’attacco e soprattutto lo sciame di aerei militari che quella sera apparivano e scomparivano nei cieli del Tirreno (come attestato da una perizia condotta da esperti della NATO). Nonostante ciò, quest’ipotesi continua tutt’oggi a essere propugnata da chi ha interesse a sottrarsi alle proprie responsabilità, e cioè l’Aeronautica italiana (supportata dai suoi fan). Molti sospettano che essa sappia esattamente cosa è successo, ma io la penso diversamente: secondo me non può ammettere di non saperlo (o averlo mai saputo) perché sarebbe inammissibile per chi ha la mission di garantire la sicurezza dello spazio aereo nazionale. La terza ipotesi, quella dell’attacco missilistico, è quella che con il tempo si è affermata (a scapito della possibile collisione aerea).
Su quel convincimento, frutto di analisi radaristiche e missilistiche condotte da esperti di massimo livello (funzionari della Federal Aviation Authority e del National Transportation Board), erano stati costruiti quattro scenari, sui quali mi impegnai nel duplice sforzo di cercare conferme o smentite, vestendo sia i panni del magistrato inquirente sia quelli dell’avvocato della difesa. Si trattava di quello italiano (un incidente durante un’esercitazione), quello americano (un caccia decollato dalla portaerei Saratoga con l’intenzione di abbattere un aereo libico con Gheddafi a bordo), quello francese (un caccia decollato dalla base corsa di Solenzara, o dalla portaerei Clemenceau, con lo stesso bersaglio), quello libico (collegato al MiG ufficialmente precipitato sulla Sila il 18 luglio 1980).
Dopo essermi convinto che, anomalie a parte, non c’era assolutamente nulla di concreto a conferma di un agguato aereo a Muammar Gheddafi da parte di uno dei Paesi presi in considerazione, scoprii un “quinto scenario” sul quale tutto quadrava, sostenuto da una mole di evidenze indiziarie che mancava in ognuno degli altri quattro e straordinariamente conforme alla realtà del momento sul piano storico, militare e geopolitico.
Anziché domandarmi chi altro potesse aver abbattuto il DC-9, mi resi infatti conto che occorreva capire quante altre volte nella storia un velivolo civile fosse stato bersaglio di un agguato aereo in tempo di pace, e come fossero stati spiegati eventuali casi equivalenti verificatisi prima del 1980. Appurai così che si era trattato di un evento praticamente privo di precedenti. L’unico Paese che nella storia dell’aviazione mondiale aveva organizzato un agguato aereo in tempo di pace (avvenuto nel Mediterraneo e conclusosi con la morte, per errore di vittime innocenti) era stato Israele alla vigilia della Crisi di Suez del 1956. Sempre israeliano era poi stato il caccia che, sette anni prima di Ustica, aveva abbattuto per errore un aereo passeggeri in volo sul Sinai (scambiato per una aereo-spia). Delle 113 persone a bordo solo cinque erano sopravvissute.
In aggiunta, mi resi conto che nel giugno del 1980, Israele aveva un Primo ministro con un passato unico al mondo: era infatti stato il capo di un’organizzazione paramilitare clandestina, l’Irgun. Nel 1946, i suoi uomini avevano fatto saltare in aria un’ala del King David Hotel di Gerusalemme, quartier generale delle truppe inglesi che all’epoca governavano la Palestina. Nell’esplosione, oltre a ventotto soldati britannici, erano rimasti uccisi 63 civili, tra i quali quindici ebrei. Episodi del genere avevano reso Begin inviso non solo agli inglesi, ma anche agli altri indipendentisti ebraici. In un’occasione, il padre-fondatore di Israele David Ben Gurion lo aveva chiamato uomo «con la predisposizione al razzismo e all’omicidio». Nel maggio del 1948, Begin aveva trasformato l’Irgun nel partito politico Herut e, sette mesi dopo, aveva deciso di recarsi negli Stati Uniti a cercare supporto politico. In quell’occasione, Albert Einstein, Hannah Arendt e altri 26 professionisti e intellettuali ebrei avevano scritto una lettera aperta al «New York Times». «Tra gli eventi politici più inquietanti dei nostri tempi, occorre notare l’emergere nel neonato Stato israeliano di Herut, un partito politico creato da membri e seguaci del gruppo terroristico di destra e sciovinista Irgun che per organizzazione, metodi, filosofia politica e attrattiva sociale è molto simile ai partiti fascisti» riportava la lettera «oggi parlano di libertà, democrazia e antimperialismo, ma fino a poco tempo fa predicavano apertamente la dottrina dello Stato fascista. E sono il loro comportamento e le loro azioni passate che ci spiegano cosa dobbiamo aspettarci che farà in futuro. Un esempio scioccante viene da ciò che hanno fatto pochi mesi fa nel villaggio arabo di Deir Yassin. Questo villaggio, lontano dalle strade principali, non aveva preso parte alla guerra e la sua gente aveva persino combattuto i gruppi arabi che volevano usarlo come base operativa. Lo scorso 9 aprile, bande di terroristi lo hanno attaccato, uccidendo la maggior parte dei suoi abitanti – 240 uomini, donne e bambini – tenendone in vita alcuni per farli sfilare come prigionieri per le strade di Gerusalemme.» Il riferimento era alla più grave delle atrocità subite dalla popolazione palestinese nei mesi che avevano preceduto la dichiarazione di indipendenza dello Stato ebraico contribuendo a mettere in fuga una larga fetta dei circa 750.000 palestinesi che diverranno profughi a seguito della nascita di Israele. «La maggior parte della comunità ebraica è rimasta inorridita dall’atto e l’Agenzia ebraica ha inviato un telegramma di scuse al re Abdullah di Transgiordania» continuava la lettera aperta di Einstein e Arendt «ma quell’incidente esemplifica il carattere e le azioni di un partito che predica una miscela di ultranazionalismo, misticismo religioso e supremazia razziale […]. La loro è l’impronta inconfondibile di un partito fascista per il quale il terrorismo contro ebrei, arabi o britannici e la manipolazione della realtà sono i mezzi per raggiungere l’obiettivo che si pone: la creazione di uno “Stato dominante”.» Secondo Einstein e Arendt, fondando il partito Herut, Begin aveva insomma deposto le armi ma non aveva rinunciato al suo fanatismo nazionalista diventando il padre politico del revanscismo ebraico. Certamente era convinto che il suo Paese si sarebbe sempre trovato solo a fronteggiare un mondo che non avrebbe mai protetti gli interessi del suo Paese. E il passato gli aveva insegnato che gli ebrei sarebbero stati di nuovo ridotti a vittime se non avessero lottato per la sopravvivenza con la determinazione e persino l’odio che sarebbero stati necessari. «Chi può condannare l’odio del male che nasce dall’amore del bene e del giusto?» si era chiesto nel libro autobiografico La rivolta. E aveva proclamato: «Dal sangue, dal fuoco, dalle lacrime e dalle ceneri è nata una nuova specie di essere umano, una specie completamente sconosciuta al mondo, l’Ebreo Combattente». Insomma, se in quel momento storico, c’era un capo di governo e comandante supremo delle forze armate “pronto a tutto” indipendentemente dalle possibili conseguenze delle sue azioni questi era Menachem Begin.
Ma la svolta finale avvenne quando scoprii il suo possibile movente: ai suoi occhi era in gioco la sopravvivenza stessa di Israele. Nella seconda metà degli anni Settanta, l’Iraq, unico paese arabo che non aveva mai accettato la tregua con Israele, aveva infatti firmato accordi di cooperazione nucleare con la Francia e l’Italia e Begin era determinato a impedire che Saddam Hussein riuscisse a ottenere una bomba atomica.
Non essendo riuscito a convincere francesi e italiani del fatto che il trasferimento in Iraq della loro tecnologia nucleare costituiva un rischio “esistenziale” per Israele, nella primavera del 1979, Begin ordinò a un commando del Mossad di sabotare i reattori che i francesi si apprestavano a trasportare per nave in Iraq (i quali però furono riparati e spediti via aerea).
Due settimane prima di Ustica, un altro commando del Mossad aveva ucciso, torturandolo a morte, lo scienziato che gli iracheni avevano inviato a Parigi a ultimare la procedura d’invio della carica di uranio arricchito che avrebbe dovuto alimentare il reattore (ma era anche bell’e pronto per una bomba atomica). Una delle due date previste dai francesi per l’invio dell’uranio da Marsiglia a Baghdad era il 27 giugno 1980 e il loro aereo cargo civile sarebbe dovuto passare su Ustica (in realtà quella era una data fittizia artatamente diffusa dai francesi per confondere gli israeliani, e la carica di uranio era invece partita due giorni prima).
A quel punto, esattamente 30 anni or sono, pubblicai l’atto primo de Il quinto scenario, libro-inchiesta che inizialmente ebbe una grande eco mediatica, alla quale però non seguì alcuna seria verifica, né giudiziaria né mediatica. Decine di ipotesi estremamente suggestive continuarono invece a indirizzare l’immaginario nazionale su scenari uno più incongruente e indimostrabile dell’altro, nessuno basato su fatti, documenti o una vera conoscenza di guerra aerea o dei precedenti storici che potessero confermarlo o sconfessarlo. Tutti invece alimentati da improbabili congetture sui dati gli eventi più disparati.
Alla fine, giunsi alla conclusione che l’opinione pubblica fosse ormai troppo frastornata e confusa per prestare attenzione a uno scenario che, fuori da schemi ideologici, offriva risposte storicamente e militarmente fondate su dati, fatti e indizi concreti. Pur non smettendo mai di leggere articoli, libri e testimonianze sulla vicenda del DC-9 dell’Itavia, mi ero perciò focalizzato su altre inchieste che nel corso di tre decenni hanno spaziato dal ruolo di Roberto Formigoni nello scandalo dei «buoni-sconto» petroliferi concessi da Saddam Hussein al miliardo di dollari pagato dall’ENI a una società controllata dal ministro del petrolio nigeriano che le aveva concesso una licenza esplorativa super-redditizia . Fin quando, nell’estate del 2023, Giuliano Amato ha scosso il Paese con un appello al rigetto dell’oblio politico e giudiziario con un’intervista a Repubblica. Specificando di non aver alcuna informazione riservata, in quell’occasione Amato rilanciò uno dei quattro scenari da me dimostrati infondati – quello francese – ma l’intensità delle reazioni suscitate mi ha spinto a tornare a occuparmi di Ustica a tempo pieno.
Da allora, ho esaminato migliaia di pagine di perizie e sentenze rese pubbliche in questi ultimi trent’anni, letto tutti i libri che ritenevo potessero essere di aiuto anche se solo marginale, consultato numerosi altri esperti e soprattutto scoperto alcuni nuovi documenti e fatti.
Questo ulteriore lavoro di ricerca e analisi non solo ha confermato la solidità dello scenario da me esposto nel 1994, ma ha convinto lo stesso Amato a scrivere l’incipit del mio secondo atto e il programma di RAI3 Report a produrre (con il mio contributo) un servizio esclusivo condotto da Luca Chianca sullo scenario israeliano.
Le nuove evidenze da me ora pubblicate in Il quinto scenario – atto secondo non solo sgretolano in modo inconfutabile qualsiasi scenario alternativo, ma rispondono a quei pochi dubbi che il primo atto non era stato in grado di dirimere in modo tale da soddisfare tutti gli esperti.
Sul primo fronte, a parte il fatto che, né io né i magistrati siamo mai riusciti a trovare evidenze anche solo indiziarie di un qualsiasi piano – americano, francese o multinazionale che fosse – di attacco a un aereo libico, ho trovato la prova che il presupposto stesso di questi scenari – e cioè il bersaglio libico – è una “bufala”.
La realtà è infatti che né Gheddafi né alcun MiG libico era in volo – o era previsto fosse in volo – il 27 giugno 1980. A dimostrarlo è uno scambio epistolare avuto con la Farnesina (inizialmente classificato “Riservatissimo”) dall’allora ambasciatore italiano a Tripoli Giorgio Reitano.
Dopo aver per mesi – ma invano – tartassato i libici di richieste di documentazione o informazioni a supporto dell’ipotesi di un attacco a un loro velivolo (con o senza Gheddafi a bordo), Reitano giunse a questa conclusione:
“La spiegazione più semplice dell’atteggiamento assunto dalle autorità libiche è che Jalloud, e prima di lui Gheddafi, abbiano voluto sfruttare propagandisticamente una questione quale quella di Ustica, sulla quale non dispongono in realtà di elementi specifici, nel quadro dell’ormai tradizionale polemica contro gli Stati Uniti e più in generale i rischi connessi con la presenza militare delle superpotenze nel Mediterraneo.”
Il precedente
Il principale dubbio espresso dagli esperti alla pubblicazione dell’atto primo de Il quinto scenario era legato al fatto che facevano fatica a credere che un servizio di intelligence del calibro del Mossad potesse aver confuso un altro areo cargo decollato da Marsiglia il 27 giugno 1980 per il velivolo con a bordo l’uranio, dando così luce verde all’agguato aereo.
Ebbene, dal libro Uccidi per primo, scritto dal più bravo e introdotto analista militare israeliano, Ronen Bergman, si apprende che due anni dopo Ustica, gli uomini (o le donne) del Mossad avevano commesso lo stesso errore e che l’Aeronautica israeliana era stata a un passo dall’abbattere un velivolo civile con a bordo il fratello medico di Yasser Arafat (il bersaglio previsto) con 30 bambini palestinesi feriti nei campi di Sabra e Shatila.
Ho poi appurato che due giorni dopo la tragedia di Ustica, Begin aveva avuto un infarto e che uscendo dall’ospedale aveva convocato d’urgenza l’ambasciatore americano a Tel Aviv, Sam Lewis, per parlargli dell’invio dell’uranio francese a Baghdad (che a quel punto presupponeva fosse arrivato).
Lewis aveva poi inviato un cable al Segretario di Stato nel quale aveva ricostruito l’incontro: “Dobbiamo prevedere che gli israeliani si sentiranno costretti a intraprendere qualsiasi tipo di azione per ostacolare i piani iracheni ben prima che questi siano effettivamente in possesso di un’arma nucleare […]. Inizialmente le mosse israeliane saranno probabilmente clandestine, ma non possiamo e non dobbiamo escludere alcuna possibilità di attacchi paramilitari o preventivi […] indipendentemente dalle terribili conseguenze che tali azioni potrebbero produrre”.
L’ambasciatore americano non poteva immaginare che un attacco preventivo era già stato condotto un paio di settimane prima nei cieli di Ustica. E che le conseguenze erano state tanto terribili quanto da lui temuto.
In conclusione, questo mio secondo atto dimostra inequivocabilmente che un attacco aereo sul Mar Tirreno sarebbe stato possibile solo se ci fosse stato un movente assolutamente straordinario, se condotto da una forza aerea con esperienza in operazioni di quell’eccezionalità e se sancito da un leader politico disposto a tutto nel nome della sicurezza nazionale. Il 27 giugno 1980 soltanto il programma nucleare iracheno, l’Aeronautica militare israeliana e Menachem Begin rispondevano a tali requisiti.
E questo è certo al cento per cento.
Nel servizio sul «quinto scenario» mandato in onda da Report domenica 26 maggio 2024, il bravissimo Luca Chianca è riuscito a intervistare David Ivry, comandante dell’Aeronautica militare israeliana all’epoca dei fatti. Pur ammettendo che i «suoi» caccia erano in grado di volare «in molti posti» dei quali era bene «non si sapesse», Ivry ha giurato che Ustica non è stata tra questi. L’ex portavoce di Begin, Shlomo Nakdimon, come Ivry ormai ultranovantenne, è stato invece molto più trasparente.
«Ha intervistato David Ivry?» ha chiesto a Chianca in coda al loro incontro.
«Sì» ha risposto il giornalista di Report.
«E cosa le ha risposto?»
«Ha negato.»
«Adesso io voglio che lei sappia un’altra cosa – parlo in generale – ci sono cose, le più drammatiche, di cui non si può parlare. Non possono essere raccontate.»
Appena dopo aver sostenuto di parlare «in generale», Nakdimon ha però incautamente aggiunto una frase che lega in modo palese quel suo commento all’evento di Ustica: «Qui si trattava anche dei rapporti fra noi e la Francia».
L’ex portavoce di Begin ha poi concluso con un’affermazione a mio giudizio straordinariamente vicina a un’ammissione di responsabilità: «Ci sono cose che non si possono dire neanche in segreto. Sono cose che non saranno mai conosciute, e saranno portate nella tomba delle persone che le hanno vissute».
*Claudio Gatti, ex corrispondente dell’Europeo e inviato speciale de Il Sole 24 Ore, autore di Fuori Orario (2009), Il Sottobosco, con Ferruccio Sansa (2012); Enigate (2018) e I Demoni di Salvini, (2019). Sono l’unico giornalista italiano ad avere avuto inchieste pubblicate da testate straniere quali New York Times, Financial Times, Frankfurter Allgemeine Zeitung e Mediapart.