Il Venezuela è di nuovo sulle prime pagine dei giornali, e a livello internazionale. Perché tanto interesse per le vicende di un paese lontano dal “primo mondo”, se la maggioranza di coloro che ne parlano non riescono a segnalarlo nemmeno sulle carte geografiche? Perché tanta furia e tante “dichiarazioni” sul sistema che governa il Venezuela, anche da parte di chi, in Europa, è totalmente disinteressato alla politica? Per quali meccanismi si scatenano queste “passioni”?
Cerchiamo di elencare brevemente alcuni punti a questo proposito, sia dal lato della borghesia che dal lato di coloro che cercano di combatterla.
Il Venezuela è un paradigma, un nuovo paradigma – economico, politico, simbolico – per il 21° secolo. Un laboratorio che dovrebbe essere preso in considerazione anche da chi tiene gli occhi fissi sul modello europeo.
Il Venezuela rappresenta il punto di frattura più alto che si sia verificato nel modello capitalista dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Un esempio concreto che le cose si possono cambiare non solo con le armi ma anche con il voto, purché si assumano i costi della difesa del programma proposto, anche se “limitato” ad alcune modifiche strutturali, coniugando i principi del socialismo con la democrazia popolare.
Non dobbiamo sottovalutare la forza dell’esempio, decisivo nel corso del XX secolo (il secolo delle rivoluzioni), in cui tutti gli oppressi dal sistema capitalista “volevano fare come in Russia”. La forza dell’esempio, che l’imperialismo ha cercato di distruggere, distorcere o nascondere dispiegando un gigantesco apparato multiforme, come si è visto e si vede contro Cuba, Nicaragua e Venezuela.
È necessario riflettere profondamente sul significato della motivazione data, nel 2014, dal “democratico” Obama per imporre “sanzioni” al Venezuela, definito come “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati Uniti”. La minaccia dell’esempio.
Una minaccia da stroncare con l’imposizione di misure coercitive unilaterali e illegali, in barba al rispetto delle tante decantate regole democratiche che, quando sono di impaccio, possono essere calpestate in nome di interessi “superiori”: quelli del profitto.
Il pericolo che viene dal Venezuela – paese in cui le speranze del socialismo si rinnovano attraverso la trasmissione della memoria storica, quella degli insorti, alle nuove generazioni – è quello di ricordare ai comunisti e alle comuniste d’Europa la questione inaggirabile rimasta in sospeso dal grande ciclo di lotte degli anni ’70: perché tutta quella forza organizzata è stata distrutta con la complicità dei partiti riformisti di sinistra?
Perché in Europa le forze di alternativa non sono riuscite a farsi strada né con le armi né con le urne? Perché, quando si è presentata l’occasione, com’è successo in Grecia, i dirigenti di sinistra hanno deluso le aspettative e hanno finito per piegarsi alle grandi istituzioni europee?
E, soprattutto, perché anche alcuni esponenti della sinistra “radicale”, neo-eletti nelle istituzioni europee, sono più inclini a difendere la “democrazia” dagli autoproclamati golpisti e non la volontà delle classi popolari venezuelane, e considerano il socialismo una “dittatura”?
Possiamo individuare almeno tre punti di frattura principali, determinanti per la costruzione di un nuovo paradigma imperialista per il secolo 21: la guerra nella ex Jugoslavia, la più importante e sanguinosa guerra nel vecchio continente dalla fine della Seconda guerra mondiale, scoppiata all’inizio degli anni ’90; il massacro in Ruanda, scoppiato nella regione africana dei Grandi Laghi nel 1994; e l’avvitamento – concreto e simbolico – del conflitto storico per il diritto a esistere del popolo palestinese. A seguire, la distruzione dell’Iraq e della Libia, con l’uccisione di Saddam Hussein e di Muammar Gheddafi.
Da lì hanno preso corpo alcuni “assiomi” dominanti per imporre la “balcanizzazione” del mondo, la strategia del “caos controllato” così ben delineato nei programmi di rilancio della Nato. Intanto, spicca il ruolo dei media nei conflitti, che funzionano da apripista nelle guerre imperialiste.
Nei Balcani, si trattò di confondere le acque, mostrando come “forze del bene” i mercenari al soldo dell’imperialismo Usa, e di disegnare il ruolo di “autorità imparziali” per gli organismi internazionali a loro subalterni. Si trattò, soprattutto, di ricattare quanti volessero analizzare la situazione in base allo scontro di interessi in campo, scontro di interessi geopolitici per una nuova ridiscolazione del mondo senza l’Unione sovietica.
In questo, in Europa, la strada era già stata spianata dal post-modernismo, dall’imposizione di metafisiche e dietrologie che facevano apparire cosa da dinosauri qualunque riferimento ai concetti marxisti che permettessero di individuare il campo in cui situarsi.
Come si sa, in Italia, allora c’era un governo guidato da un ex comunista, Massimo D’Alema, che decise l’intervento armato con l’appoggio “bipartisan” di tutte le forze politiche. Un’aggressione in spregio al diritto internazionale e all’articolo 11 della Costituzione italiana che “ripudia la guerra”, e che darà l’avvio a una serie di crescenti violazioni, compiute in nome della cosiddetta “comunità internazionale”.
Nelle guerre balcaniche, per diffondere la strategia del “caos controllato”, l’imperialismo ha soffiato sul fuoco delle differenze etniche, che convivevano pacificamente durante il socialismo. In Ruanda si è trattato di nascondere sotto la maschera del conflitto etnico, dovuto alla natura “selvaggia” dei neri, i termini di un confronto inter-imperialista determinato dalla necessità degli Usa di imporre una nuova egemonia, e di assumere il controllo diretto delle risorse dell’Africa, senza più la mediazione dei partner europei.
Ma, in questo caso, quel che più fa premio è il ruolo dei media, anche popolari – in questo caso le radio come la Radio delle Mille colline – nel fomentare l’odio etnico, costruire false notizie e prestarsi a diffonderle per costruire il “caos controllato”. Ancora oggi, la sinistra risulta vittima di quella propaganda viziata e di un’attenzione neo-coloniale verso la storia concreta dei paesi africani. Un “modello” che si è tentato e si tenta di imporre oggi al Venezuela.
In Ruanda vige oggi uno stato di terrore, che però viene venduto al mondo come uno stato esemplare, con un governo esemplare, dove l’Europa vorrebbe espellere i migranti respinti dalle sue frontiere.
Come Israele, sembra intoccabile. I media e le istituzioni internazionali trattano entrambi con i guanti, enfatizzando un inesistente processo di “riconciliazione” governato dalle forze internazionali. Una narrazione inventata, tutta rivolta al mondo esterno.
Serve a lasciare mano libera ai sudditi dell’imperialismo – e in particolare a Paul Kagame, immarcescibile presidente del Ruanda che si considera il “fratello di Benjamin Netanyahu”, e di certo non viene additato come dittatore – per consentirgli di mettere le mani sulla regione del grande Congo, ricca di risorse preziose. Entrambi sfruttano la loro carta bianca per commettere un genocidio, ripetendo il ruolo delle “vittime meritevoli”.
Il paradigma della “vittima meritevole”, agito anche con l’interpretazione del “genocidio in Ruanda” che si è imposta da allora, è d’altronde un’altra perfida chiave di interpretazione del mondo, che vediamo agire come schermo di fronte al genocidio dei palestinesi.
Il ruolo di apripista dei media e degli apparati ideologici di controllo, assai sofisticati nelle società complesse d’Europa, è apparso chiaro nella costruzione del nemico da abbattere, come nel caso di Saddam Hussein e di Muammar Gheddafi, utile per far “digerire” alla cosiddetta opinione pubblica internazionale, menzogne grossolane come quelle dell’ampolla mostrata a riprova di presunte “armi di distruzione di massa”. Ora si cerca di fare lo stesso con Maduro e con i dirigenti socialisti venezuelani.
Nel “laboratorio bolivariano”, in questi 25 anni di esistenza della rivoluzione popolare avviata da Chávez, sono stati sperimentati tutti questi tentativi imperialisti: dalle cosiddette “rivoluzioni di colore” inaugurate nella ex Jugoslavia, all’intossicazione mediatica moltiplicata dalla crescita esponenziale delle reti sociali: specchio della grande concentrazione monopolistica della proprietà economica, che risiede in poche mani, e che ha reso l’informazione una merce.
Che l’ex-twitter di Elon Musk sia diventata la piattaforma social di estrema destra, che sostiene ufficialmente le politiche xenofobe dell’ultra-liberista Donald Trump, è apparso chiaro durante l’intervista al tycoon di questi giorni, di cui Munsk è sostenitore e finanziatore ufficiale. Un dato che consente di inquadrare i molteplici attacchi cibernetici alla rivoluzione bolivariana (a cominciare dal giorno delle elezioni), e le minacce rivolte dal magnate del web al presidente, Nicolas Maduro, e il suo sostegno alla golpista Machado, ammiratrice di Milei e di Netanyahu.
Quel che dovrebbe stupire è l’adesione di certi “sinceri democratici” europei, persino di alcuni di quelli che si ammantano di “purezza anti-capitalista” al campo del golpismo venezuelano e di chi lo sostiene. E, davvero, sembra di rivivere il clima orrorifico del massacro in Ruanda (e della propaganda nazista), osservando la campagna di odio e di linciaggio che si va diffondendo sulle reti sociali, anche in Europa: per esempio contro l’ex dirigente di Podemos, Juan Carlos Monedero, e contro l’ex presidente spagnolo José Luis Zapatero.
Entrambi vengono attaccati perché rifiutano – apertamente o in modo silente – di prestarsi agli attacchi neocoloniali alla democrazia venezuelana, che non accetta di essere messa sotto tutela, come vorrebbero fare i governi dell’Unione europea.
E per quanti, anche questa volta, hanno cercato di minimizzare o negare l’entità del “cyber-golpe”, tentato contro la rivoluzione bolivariana, vale la rivendicazione di Anonymous Venezuela. Il gruppo hacker ha dichiarato su X di aver messo a punto “la più grande rete di malware del mondo”, in collaborazione con CyberHunters, per sferrare attacchi a siti e portali governativi e alle organizzazioni che si occupano di cybersicurezza.
Chi avesse ancora dubbi sull’orientamento di questi hacker e su chi li finanzia, tutt’altro che “anarchico”, può guardare chi hanno colpito in Venezuela: piattaforme sindacali, operaie, comunitarie e femministe, sedi di movimenti e partiti socialisti. Per quanto tempo ancora, in Europa, si continuerà a non vedere la vera natura di queste presunte entità “libertarie”?
E soprattutto, perché, con tutto l’orrore che l’imperialismo semina nel mondo, a cominciare dal genocidio in Palestina, questi “simpatici” hacker si dedicano a mettere in campo “l’arsenale più grande al mondo per sferrare attacchi al regime di Caracas”?
D’altro canto, basta ripercorrere alcune delle rivelazioni del sito WikiLeaks – ripubblicate di recente dall’agenzia venezuelanews – per capire l’entità e la pervicacia dell’ingerenza nordamericana e europea negli affari interni del Venezuela, e gli interessi che hanno mosso e muovono i tentativi di rovesciare i governi bolivariani.
Nei numerosi documenti pubblicati dal sito di Julian Assange – che ha pagato con molti anni di carcere il coraggio di informare – il Venezuela è menzionato in oltre 170.000 documenti. Ci sono le prove dell’uso e del finanziamento di ong e difensori dei “diritti umani”, e le testimonianze di chi si è fatto comprare per passare informazioni agli Usa dall’interno dell’impresa petrolifera statale (Pdvsa).
Dopo il golpe contro Chávez, del 2002, solo tra il 2004 e il 2006, tramite le loro agenzie per la sicurezza, gli Usa hanno erogato 15 milioni di dollari a più di 300 Ong venezuelane.
Fiumi di dollari che servono a diffondere il racconto dei “pacifici” manifestanti attaccati ingiustamente da una “feroce” dittatura. Falsità alimentate ad arte per mettere le mani sulle risorse del paese, espropriare le classi popolari del potere di decidere, e diffondere la guerra imperialista anche in America latina, unico continente finora rimasto immune.
Ma, per fortuna, il Venezuela non è solo. “Il popolo venezuelano è un popolo pacifico, felice e combattivo. I popoli del mondo sono disposti a difendere le sue decisioni sovrane da ogni tentativo di interferenza”. Questo è l’obiettivo della “Campagna Globale per la Democrazia e la Sovranità: gli Stati Uniti fuori dal Venezuela”, lanciata dai Movimenti ALBA, dall’Assemblea Popolare Internazionale, dall’Istituto Simón Bolívar e dall’Assemblea dei Popoli dei Caraibi, e che è diffusa anche nelle principali lingue parlate in Europa: spagnolo, portoghese, inglese, francese e arabo.
Anche dall’Europa, oltre ad organizzare manifestazioni e dibattiti a sostegno della rivoluzione bolivariana, la sinistra non addomesticana risponde così alle potenti strategie politiche e diplomatiche che, dai media egemonici, hanno cercato di installare un’idea di illegittimità dopo le elezioni presidenziali del 28 luglio, che hanno dato la vittoria al presidente Maduro.
Non dobbiamo sorprenderci che l’imperialismo cerchi di sbarrare la strada ai popoli con la guerra ibrida, e che questa guerra sia stata scatenata con furia contro il Venezuela, un paese dove governa il popolo e non l’oligarchia. Il Venezuela – si legge nel comunicato della Campagna Globale – occupa un posto privilegiato nel contesto geopolitico regionale e globale: “per la sua importanza nella produzione mondiale di petrolio, per i suoi beni comuni messi al servizio dei popoli, per il posto che occupa nel mondo multipolare insieme ai paesi emergenti e, naturalmente, per il ruolo che svolge nel progetto di unione e integrazione regionale in America Latina e nei Caraibi. Un progetto per dare continuità alla sconfitta dell’Accordo di libero commercio per le Americhe (ALCA) e mantenere vivo l’orizzonte della sovranità continentale, lontana dai disegni dell’ALCA voluta dagli Stati Uniti”.
Allo stesso modo – dice ancora l’appello -, il popolo sa che la migliore difesa dei risultati elettorali del 28 luglio è quella di rendere visibile proprio l’enorme forza sociale che porta con sé il progetto della Rivoluzione Bolivariana, e l’enorme sostegno popolare che proviene dai quartieri, dalle comunità, dalle comunas, sia urbane che rurali. “Una forza che continua il progetto inaugurato dal comandante Chávez nel 1998, e che oggi il presidente Nicolás Maduro porta avanti con successo”. Una forza che “minaccia” con l’esempio, intenzionata a resistere. Contro venti e maree.