Ritorniamo sulla Convention democratica di Chicago. Per un motivo, essenzialmente. Ai delegati palestinesi, che volevano prendere la parola dal grande palco dove si sono avvicendati i grandi passati per lo studio ovale della Casa Bianca, non è stato concesso di intervenire. Il timore, dicono le cronache ufficiali, era che quei discorsi potessero dividere piuttosto che unire.
Ed in un momento in cui il più grande partito statunitense che tiene insieme ceto medio e grande industrialismo e finanza, ciò avrebbe significato riconsiderare, seppure parzialmente, certi altri interventi dal palco. Compreso quello di Kamala Harris. La fenomenologia di questi grandi eventi ci dice, per comprovata e ripetuta esperienza, che la funzione principale che hanno è la galvanizzazione.
Soprattutto in momenti in cui la disperazione la fa da padrona tra le fila di un partito che ha concesso, come da tradizione, troppo al compromesso interclassista, regalando enormi privilegi ai ricchi e concedendo molto poco ai più diseredati della società. In politica estera, poi, visto che di questo qui si tratta, l’alternanza tra trumpismo e bidenismo è stata pressoché irrilevante se si guarda all’area mediorientale.
La stessa Harris ha sottolineato più volte che nulla cambierà con la sua probabile (o possibile…) futura amministrazione di governo presidenziale nei confronti di Israele e della Palestina. Con una mano sul cuore per quanto riguarda l’esagerato numero delle vittime palestinesi. Tutta l’ipocrisia del doppiezza di Washington qui si evince con una chiarezza lucida, bene espressa e volutamente comunicata al mondo affinché intendano tutti: gli Stati Uniti rimarranno accanto a Tel Aviv e a Netanyahu.
La retorica imbolsita dei buoni propositi della terzietà presidenziale sono l’effetto dato alla palla del discorso che sfreccia in alto sopra le teste dei sostenitori e finisce per perdersi nell’infinito delle illusioni a cui si tenta sempre di credere: superare l’amarezza, il cinismo e le battaglie divisive del passato che cosa vuol dire per Kamala Harris se non si ritrova nel suo discorso una discontinuità, ad esempio, sulla grande tragedia di Gaza?
Dalla parte dell’Ucraina e di Israele senza se e senza ma, approssimando il valore etico della conta dei morti ammazzati dalle guerre. Una variabile dipendente dalla necessità di rendere più consolidate e forti le politiche di Washington sulla ricerca di una competizione globale che sia standardizzabile rispetto al livello della decrescente situazione economica interna e internazionale. A tutto vantaggio di quella Cina che strizza l’occhio alla Russia e che preoccupa molto di più oggi i teorici del liberismo che voteranno democratico.
A Gaza la conta dei palestinesi che sono stati brutalmente uccisi da Tsahal e dall’aviazione dello Stato di Israele è arrivata ad oltre quarantamila unità. I feriti sono oltre centomila. Feriti gravi. In Cisgiordania, dove ufficialmente non c’è alcuna guerra dichiarata o non dichiarata da Israele, ma dove da sempre le tensioni e le uccisioni sono all’ordine del giorno, la ferocia colonizzatrice dei peggiori elementi del sionismo iper-religioso ha fatto quasi seicento morti dal 7 ottobre di un anno fa.
Non sono stragi anche queste, seppure diluite nell’arco di dodici mesi? Ma i democratici americani scelgono di non consentire ai palestinesi che voteranno per loro e che sostengono Harris, di poter esprimere un grido di dolore dal palco che in questi giorni ha attratto la maggior parte dell’attenzione delle testate di tutto il mondo. La farsa di Blinken è, poi, davvero quasi incommentabile: chi ha mai creduto ad una tregua tra Netanyahu e Hamas secondo le condizioni dettate dal gabinetto di guerra?
Gli omicidi mirati degli alti esponenti dell’organizzazione terroristica islamista e anche di alti funzionari di al Fatah, nonché di comandanti iraniani e libanesi di Hezbollah, sono, nel complesso, la dimostrazione di una esacerbazione del conflitto di Gaza che travalica gli stretti, asfittici e infernali confini in cui si trovano più macerie rispetto alle case rimaste in piedi, più morti e morenti dei vivi assiepati in zone di sicurezza praticamente inesistenti.
Entrambi, Netanyahu e Sinwar attendono che la guerra avvampi ulteriormente e che la risposta iraniana e ultrareligiosa diminuisca i rischi che corrono le due amministrazioni politico-militari di fronte all’opinione pubblica. Anche se – va detto – Hamas rischia molto meno del governo israeliano, perché la reazione popolare allo sterminio genocidiario di Gaza porta proprio ad uno dei responsabili di quello che sta avvenendo un consenso che altrimenti non avrebbe.
La politica americana, dunque, sia che alle presidenziali autunnali vinca Trump, sia che vinca Harris, non cambierà rispetto al pieno appoggio che oggi viene dato alle azioni criminali dello Stato di Israele contro il popolo palestinese. Nulla giustificava prima, nulla tanto più giustifica oggi, dopo decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti, una guerra che ha raso al suolo le città, distruggendo oltre l’80% delle abitazioni civili, gli ospedali, le biblioteche, le scuole, le moschee e le chiese, oltre agli edifici governativi.
Le parole di Kamala Harris per i palestinesi, senza un diretto riscontro, senza un cambiamento radicale di linea politica internazionale in Medio Oriente, rimangono un passaggio di formale, ipocrita galateo istituzionale che non modifica minimamente le intenzioni e le pratiche del governo israeliano verso Gaza, verso l’intero Territorio occupato. Ed è anche per questi motivi che risulta davvero difficile intravedere uno spiraglio di speranza nel cambio di amministrazione che comunque avverrà.
La continuità è la cifra politica di un Partito democratico allo sbando che, solamente nell’ultimo mese, dopo la rinuncia di Biden alla ricandidatura, indotta dalle alte dirigenze certe, come qualunque semplice osservatore al di qua dell’oceano e di ogni televisore, ha ritrovato vigore nella costruzione di una idea di alternativa al trumpismo rendendo evidenti le oggettive differenze tra l’ex procuratore Harris e il magnate complottista e fascistoide.
Ciò fa il paio con un recupero tatticista di Israele che, a ben vedere, ha sempre scansato le grandi operazioni strategiche nelle guerre che ha combattuto, preferendo una visione più pragmatica e meno idealista, più regionalista e meno globalizzante. Ma anche le guerre hanno la loro vita propria, pur essendo portatrici soltanto di morte e devastazione. E a volte sfuggono di mano, perché si alterano quelli che si presupponevano essere gli equilibri dati e intervengono fattori esterni che condizionano i piani dei governi e degli alti comandi.
Israele, in questo scenario tutto tattico, se avesse avuto una strategia di contenimento del terrorismo, ad esempio, avrebbe probabilmente evitato un attacco di Hamas su vasta scala, dislocando parte delle truppe presenti in Cisgiordania a sostenere il fanatismo dei coloni sulla linea di confine con la Striscia di Gaza. I grandi, tragici eventi della Storia si trascinano dietro tutti i dubbi del caso: proprio perché è l’imprevedibilità a scatenare illazioni, idee complottiste o fantasie in tal senso.
Alcune possono rivelarsi vere, altre vicine alla verità, altre palesemente false. Non è sbagliato, però, affermare che Israele, nell’uccidere Ismail Haniyeh e altri comandanti di Hamas, dei Pasdaran e di Hezbollah, ha inteso con precisione allargare il conflitto e affrontare più nemici nello stesso tempo. In questo caso si può allora parlare di strategia di guerra; di un salto di qualità dal tatticismo ad un più ampio orizzonte, per l’appunto, strategico. Perché il governo di Netanyahu ha avvertito la necessità di prevenire una solidarietà panaraba nei confronti dei palestinesi.
Provando ancora una volta a dividere il mondo arabo e a creare delle contraddizioni interne tramite degli attacchi mirati che ponessero Tel Aviv al centro di una questione mondiale, così da impedire un proprio isolamento da parte occidentale per la cruenta devastazione di Gaza e per quel processo al genocidio richiamato da molti Stati: dall’Africa all’Asia, dall’America Latina all’Europa.
Washington, dal canto suo, ha fatto appello ad un diritto internazionale a corrente alternata: per cui le regole valgono solo se privilegiano l’asse di un cosiddetto “mondo libero” che sta tutto ad occidente e che vede nel resto del pianeta quel “male” rappresentato da istituzioni tanto oligarchiche e tiranniche quanto lo possono essere quelle che si ergono a paladine della democrazia nei secoli dei secoli.
La questione di Gaza, dunque, è e rimane un punto centrale, focale e dirimente per qualunque amministrazione statunitense. Anche perché è stata la stessa Israele ha metterla al centro di un ginepraio regionale che oltrepassa ormai i confini del Medio Oriente (attraversato da guerra ataviche, da conflitti più recenti e da solchi di odio e disprezzo che affondano dalla notte dei tempi alle guerre del Golfo e contro il terrorismo qaedista).
Ma la storia ormai secolare del conflitto con il popolo palestinese parla al mondo di tanti altri mondi e società che vivono dentro contesti di repressione, di apartheid, di colonizzazione e di veri e propri tentativi genocidiari. Gli esempi, purtroppo si sprecano e, analizzati singolarmente, hanno ciascuno origine da questioni che riguardano anzitutto la riconoscibilità sociale, civile, culturale e, quindi, economica, di tutta una comunità a cui viene negato lo status di “nazione“.
Baschi, curdi, tibetani, ceceni, russi del Donbass, cubani contro l’embargo ultracinquantennale. Ma pure chiapanechi, indios delle foreste tropicali… L’esempio di Gaza è l’estrema punta acuminata di una ripetizione senza soluzione di continuità di atti repressivi che tengono sotto controllo interi popoli la cui affermazione nazionale sarebbe un elemento destabilizzante per i progetti liberisti regionali, zona per zona e, quindi, se la somma fa sempre il totale, nella più ampia dinamica globale.
La politica estera americana dei democratici di Kamala Harris non intende promuovere una inversione di rotta. Si batte il petto per la situazione in cui versano i palestinesi ma finanzia oggi e finanzierà domani qualunque sostegno ad Israele perché abbia sempre il “diritto di difendersi“. Dopo aver ucciso oltre quarantamila persone, di cui la metà sono bambini; dopo aver causato il ferimento grave di più di centomila gazawiti; dopo aver distrutto praticamente tutto ciò che era possibile distruggere, chi sta vincendo la guerra?
Il cinismo interessato di Netanyahu, l’estremismo di Hamas, che Israele, nonostante tutto, non riesce ad annientare, e l’alleato potente d’oltreoceano che guarda ai capitali investiti in queste guerre come preziose pedine di un risiko dove la sfida del multipolarismo moderno è tutta aperta. Pazienza se il prezzo sono le vite umane. Sono vite altrui, mica vite americane.
MARCO SFERINI