Nell’attuale crisi mediorientale, gli Stati Uniti continuano a sostenere Israele con ingenti aiuti militari, rafforzando una partnership strategica che sempre più problematica. In un contesto già estremamente teso, la recente concessione di ulteriori 8,7 miliardi di dollari in aiuti militari a Tel Aviv da parte del governo americano aggrava la situazione.
Gli USA insistono: più armi a Israele
Nonostante gli sforzi diplomatici di Washington per presentarsi come mediatore nella crisi libanese e palestinese, l’incessante fornitura di armi e munizioni a Israele solleva domande sulla reale efficacia e neutralità di tali interventi.
Mentre gli Stati Uniti si ergono pubblicamente come fautori di una soluzione pacifica, il blocco di una proposta franco-inglese per un cessate il fuoco, da parte del segretario di Stato Antony Blinken, dimostra l’opposto.
La proposta americana, più annacquata e difficile da accettare per Hezbollah e altre fazioni sciite libanesi, è stata percepita come un tentativo di guadagnare tempo piuttosto che come un vero sforzo per evitare un’escalation.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante il suo viaggio negli Stati Uniti, ha ribadito la linea dura del suo governo, affermando che “Israele continuerà a colpire Hezbollah con tutta la sua forza fino al raggiungimento degli obiettivi“. Questo significa che i bombardamenti aerei proseguiranno, con una possibile invasione di terra in preparazione, mentre le tensioni nella regione aumentano.
La posizione americana? La solita
L’incoerenza della diplomazia americana non solo destabilizza ulteriormente la situazione, ma mina anche la credibilità degli Stati Uniti nel contesto internazionale. Le grandi istituzioni globali, come le Nazioni Unite, si trovano sempre più in crisi, incapaci di svolgere il proprio ruolo di mediatori efficaci.
L’intervento di Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, all’Assemblea Generale dell’ONU, sebbene non abbia avuto un impatto giuridico immediato, ha rappresentato un forte atto d’accusa morale nei confronti degli Stati Uniti, accusati di bloccare ripetutamente le risoluzioni che condannano Israele.
Abu Mazen ha dichiarato con fermezza: “Non ce ne andremo dalla Palestina, saranno gli occupanti a dover andarsene”.
La stampa israeliana e americana: un quadro disastroso
Anche la stampa, sia israeliana che americana, ha messo in evidenza le carenze della strategia adottata dagli Stati Uniti. Un editoriale del quotidiano israeliano Haaretz ha offerto una riflessione lucida sui fallimenti della diplomazia americana, riprendendo un articolo pubblicato da Franklin Foer su The Atlantic. Foer descrive l’attuale crisi come “l’anatomia di un fallimento”.
La proposta franco-inglese per una tregua di 21 giorni è stata immediatamente respinta dal governo israeliano, con il ministro degli Esteri Israel Katz che ha dichiarato senza mezzi termini: “Non se ne parla nemmeno”.
Ciò che sembra sfuggire alla comprensione di Washington e di gran parte dell’Europa è che la crisi non riguarda solo il conflitto con Hezbollah o la questione palestinese, ma si intreccia con la politica interna israeliana.
Le posizioni oltranziste di alcuni membri del governo israeliano, come il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich hanno minacciato di far cadere il governo se Netanyahu accettasse un cessate il fuoco.
Anche l’esercito israeliano preme per un’escalation: il capo di stato maggiore Hertzl Halevi ha dichiarato che “l’esercito aspetta da anni questa opportunità per attaccare Hezbollah e lo farà in ogni parte del Libano”. Di fronte a queste pressioni, la possibilità di una tregua appare sempre più remota, con un governo israeliano che sembra orientato verso una guerra totale.
La mancanza di incisività delle risoluzioni ONU, costantemente bloccate dal diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, disarma l’Assemblea Generale e alimenta il crescente scetticismo verso il ruolo delle istituzioni internazionali.
In questo contesto, la politica degli Stati Uniti appare sempre più come un “bluff”, a cui non credono più i paesi del sud del mondo, palesemente ostili