Gianfranco Schiavone

Il Protocollo tra la Repubblica Italiana e quella albanese per il rafforzamento della cooperazione in materia migratoria ratificato con la legge 21 febbraio 2024 n. 14 configura una cessione temporanea (per cinque anni) dell’uso di una porzione del territorio albanese per l’allestimento e la gestione di due centri, nelle località di Shengjin e di Gjader nelle quali «possono essere condotte esclusivamente persone su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri stati membri dell’Ue, anche a seguito di operazioni di soccorso» (art. 3 comma 2). Le strutture per le procedure di ingresso e permanenza a Shengjin e a Gjader «sono equiparate a quelle previste dall’art. 10-ter comma 1 del Testo unico immigrazione (gli hotspot), mentre la struttura per il rimpatrio (un’ala del centro di Gjader) «è equiparata ai centri previsti dall’art. 14 comma 1 del citato testo unico [i Cpr]» (art. 3 comma 4). Il Protocollo delimita l’ingresso e la permanenza nel territorio albanese degli stranieri «al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse. Nel caso venga meno, per qualsiasi causa, il titolo della permanenza nelle strutture, la Parte italiana trasferisce immediatamente i migranti fuori dal territorio albanese».

Sono formule giuridiche apparentemente asettiche che nascondono una realtà di gravi violazioni di diritti fondamentali.

L’articolo 4 della legge prevede che «ai migranti […] si applicano, in quanto compatibili, il testo unico immigrazione [] e la disciplina italiana ed europea concernente i requisiti e le procedure relativi all’ammissione e alla permanenza degli stranieri nel territorio nazionale». Ma è proprio l’invocato principio di compatibilità a sollevare seri dubbi di conformità con il diritto UE sulla protezione internazionale, che «si applica a tutte le domande di protezione internazionale presentate nel territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri, nonché alla revoca della protezione internazionale» (Direttiva 2013/32/UE art. 3 par. 1). Infatti né il sistema europeo di asilo vigente, né i nuovi regolamenti sull’asilo approvati dall’Unione a maggio (e in particolare il Regolamento (UE) 2024/1348 che avrà applicazione da giugno 2026) consentonol’applicazione del diritto UE al di fuori del territorio degli Stati membri. Non deve trarre in inganno la finzione giuridica di “non ingresso” (ovvero il fatto che il richiedente asilo sottoposto alla procedura di frontiera non è autorizzato al soggiorno nel territorio mentre è pendente la procedura) in quanto le strutture di cui si tratta, ubicate alla frontiera o all’interno, sono comunque a tutti gli effetti parte del territorio dello Stato. Un’applicazione extraterritoriale del diritto di asilo non è attualmente prevista dal diritto Ue e la stessa Commissione Ue nel 2018, nel commentare la possibilità di un’applicazione delle procedure di asilo e di rimpatrio in un Paese terzo, definì con nettezza tale possibilità currently neither possible nor desirable (“al momento non possibile, né desiderabile”). Analoga valutazione è stata espressa da Ecre (European Council on Refugees and Exiles) prima della promulgazione della legge italiana di ratifica del Protocollo.

Un’estensione extraterritoriale degli effetti del diritto dell’Unione, in ogni caso, potrebbe essere possibile solo in caso di applicazione integrale e rigorosamente non selettiva, mentre l’equiparazione della condizione di chi si trova in Italia e di chi si troverà in Albania è del tutto fittizia: chi verrà detenuto in Albania non potrà esercitare in modo effettivo i diritti tutelati dalle norme interne ed europee. In particolare risultano duramente compressi: il diritto ad avere informazioni e consulenza sul diritto di chiedere asilo (Direttiva 2013/33/UE art. 8); il diritto di comunicare con «organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza» (Direttiva cit., art. 12 par. 1, c); il diritto di consultare «in maniera effettiva un avvocato o altro consulente legale, ammesso o autorizzato a norma del diritto nazionale, sugli aspetti relativi alla domanda di protezione internazionale, in ciascuna fase della procedura, anche in caso di decisione negativa» (Direttiva cit., art. 22);

Ulteriori irragionevoli discriminazioni investono l’effettivo accesso al diritto alla difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione e il giusto processo garantito dall’art. 111 della stessa Costituzione, in quanto nei centri in Albania si produrrà una sostanziale impossibilità di confrontarsi in modo agevole e di persona con un difensore di fiducia (“scelto” scorrendo su un elenco di nomi sconosciuti), il difensore sarà solo una tremula immagine su uno schermo cui accedere con modalità, riservatezza, traduzione e tempistica del tutto incerti, il colloquio con il giudice avverrà solo in videoconferenza, minando in tal modo il principio del contraddittorio.

Il primo e più importante diritto fondamentale compresso in maniera generalizzata nel protocollo Italia-Albania è, peraltro, la libertà personale. La legge n. 14/2024, infatti, prevede che tutte le persone inviate in Albania e sottoposte alla procedura di frontiera vengano rinchiuse durante tutto il tempo della procedura fino al termine massimo di quattro settimane, senza che sia prevista in alcun modo e in alcun caso l’applicazione di misure alternative alla detenzione. Ciò si pone in radicale contrasto con il diritto dell’Unione sull’asilo per il quale «i richiedenti possono essere trattenuti soltanto in circostanze eccezionali definite molto chiaramente nella presente direttiva e in base ai principi di necessità e proporzionalità per quanto riguarda sia le modalità che le finalità di tale trattenimento» (Direttiva 2013/33/UE, considerando n. 15). Il trattenimento infatti può essere adottato «sulla base di una valutazione caso per caso» (art. 8) e «solo dopo che tutte le misure non detentive alternative al trattenimento sono state debitamente prese in considerazione» (considerando n. 20). La norma europea esclude qualsiasi automatismo e prevede che l’amministrazione motivi in concreto, caso per caso, quali siano le ragioni per applicare il trattenimento quale misura eccezionale, nel rispetto del principio di proporzionalità. Ed è proprio in ragione della «assenza della dovuta motivazione sulla necessità del trattenimento, sulla sua proporzionalità e sull’impossibilità di fare ricorso alle altre misure alternative, di tipo coercitivo» che la gran parte dei provvedimenti del questore di trattenimento negli hotspot ubicati nel territorio italiano non sono stati convalidati (tra i molti, Trib. di Palermo RG 10239/2024 e Tribunale di Catania, RG 10461/2023).

Diversamente dalla situazione interna italiana (nella quale è stato possibile valutare in sede giudiziaria la mancanza di un’adeguata valutazione al fine di verificare se il trattenimento fosse misura necessaria), nella previsione del protocollo Italia-Albania, il trattenimento è parte inscindibile della procedura accelerata di frontiera, così rovesciando completamente i fondamenti del diritto dell’Unione sulla materia. Ipotizzare che l’alternativa al trattenimento prevista dal diritto dell’Unione consista nel portare in Italia coloro il cui trattenimento non viene convalidato è una tesi bizzarra sul piano pratico e infondata su quello giuridico. Sul piano pratico ci troveremmo di fronte a una situazione dai tratti surreali perché un numero indefinito, fatto di centinaia o migliaia di persone, verrebbero prima portate in Albania e subito dopo, con problemi organizzativi e costi elevatissimi (non quantificati nella copertura di spesa della legge n. 14/2024), portate in Italia non potendo in alcun modo permanere nel territorio albanese. Sul piano giuridico le operazioni di trasporto in Italia non sarebbero idonee neppure a salvare la previsione normativa: la questione di fondo non superabile, infatti, è che la procedura attuata in Albania non prevede alternative alla detenzione ed elude così in modo radicale il divieto del trattenimento generalizzato sancito dal diritto dell’Unione. In questa situazione il giudice chiamato a convalidare il trattenimento nei centri di cui al Protocollo tra Italia e Albania non potrà che prendere atto dell’impossibilità di un’interpretazione della legge italiana che eviti il contrasto con il diritto europeo, e in particolare con le disposizioni sul trattenimento dei richiedenti asilo di cui alla citata Direttiva 2013/33/UE.

Portare coattivamente in Albania (e domani forse in altri Paesi compiacenti) un certo numero di naufraghi ed esaminare in luoghi situati al di fuori dal territorio nazionale le loro domande di asilo è un obiettivo che poco o nulla è collegato alla gestione del sistema italiano di asilo e di accoglienza, i cui drammatici problemi di funzionamento, per mancanza di programmazione e di risorse, rimarranno invariati, o saranno accresciuti dall’enorme sperpero di risorse pubbliche che ha costruzione e la gestione dei centri in Albania comporta (https://www.openpolis.it/tutti-i-costi-e-i-dubbi-dellaccoglienza-dei-migranti-in-albania/).

L’obiettivo dell’intera operazione prevista nella legge n. 21/2024 è dunque diverso. Quel che si vuole realizzare sono spazi extraterritoriali dove rinchiudere persone che chiedono asilo alla Repubblica, alle quali si impedisce l’ingresso nel territorio nazionale (anche con forme di controllo della libertà). Le domande di asilo verranno esaminate ma l’intera procedura sarà caratterizzata da un ridimensionamento radicale dei diritti dei richiedenti e da un loro confinamento assoluto. Si mira così alla creazione di uno spazio in cui le garanzie sono, sulla carta, le stesse di quelle previste nel territorio italiano, ma nella realtà vengono sterilizzate e rese innocue. Oggi si afferma di fare tutto ciò solo nei confronti di coloro la cui domanda di asilo si ritiene probabilmente non fondata (un’assunzione spesso del tutto falsa), ma domani lo stesso prosciugamento dei diritti potrebbe facilmente estendersi senza limiti. Davvero difficile negare i contorni autoritari del disegno che prende forma

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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