Il Freiheitliche Partei Österreichs ha, dunque, per la prima volta nella storia della ex grande testa del grande impero asburgico, vinto le elezioni parlamentari: una forza di estrema destra, il cui leader storico, Jörg Haider, aveva dato una impronta apertamente fobica verso tutte le minoranza possibili: da quelle etniche a quelle sessuali, da quelle culturali financo all’antisemitismo, nonché, ovviamente, ad un feroce antiprogressismo ed anticomunismo, ottiene oggi il 29% dei consensi.
La doppia cifra con il due davanti alle altre era stata registrata negli anni novanta del secolo scorso, quando per l’appunto Haider aveva fatto quello che un po’ tutti questi nuovi nazionalisti mitteleuropei chiamavano “il miracolo“: portare la formazione del FPÖ al raddoppio delle sue originarie percentuali e, se si studiano i dati il trentennio dal 1956 al 1986, a quasi quintuplicarle.
Solitamente, l’aumento così vertiginoso di un bacino elettorale corrisponde ad una precedente fase di esercizio di accanita opposizione nei confronti di forze moderate di centro e anche di destra, nonché, nemmeno a dirlo, di sinistra. Infatti, proprio tra il 1999 e il 2002, quando il partito di Haider regge le sorti della Repubblica austriaca, immediatamente dopo l’esperienza di governo, il crollo fu vertiginoso: un -17,5% su scala nazionale, di cui si avvanttagò nettamente l’Österreichische Volkspartei (Partito popolare austriaco).
Oggi la partita, dopo tanti anni, sembra pareggiare: il ritorno prepotente sulla scena della formazione ipernazionalista guidata da colui che è stato lo scrittore dei discorsi di Haider per lungo tempo, Herbert Kickl. I complimenti arrivano da ogni parte d’Europa da tutti partiti che si definiscono “patriottici” ed anche euroscettici, pur dovendo fare buon viso a cattivo gioco con Bruxelles e con Strasburgo.
Kickl è il teorizzatore di una dipendenza del diritto dalla politica e lo afferma senza mezzi termini: «Il principio è che la legge deve seguire la politica e non la politica deve seguire la legge» e ha portato avanti, da ministro dell’Interno nel governo Kurtz (tra il 2017 e il 2019) una accesissima campagna xenofoba, di restringimento delle libertà dei migranti, parlando, sempre molto apertamente, di “deportazione” degli stessi là dove possono trovarsi meglio.
Basta che non stiano sul suolo austriaco. La vittoria del FPÖ su popolari e socialdemocratici, per quanto possa essere netta, non è tuttavia in grado di permettere un governo monocolore. Si tratta pur sempre – come del resto si trattava anche del primo cancellierato hitleriano nel 1933 – di maggioranze relative che, tuttavia, hanno, per la forza con cui si impongono, un carattere determinante e prevalente. Quindi la possibilità di formare un esecutivo e non farne semplicemente parte.
Il vento dell’estrema destra ipernazionalista, pertanto, non si placa: dall’Italia all’Austria fino alla vicina Ungheria. E poi, Vox in Spagna, il Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella in Francia, Alternative für Deutschland per l’appunto in Germania.
Ciò che, senza prescindere da ruoli di governo o di opposizione, e considerando entrambi importanti da molti punti di vista, desta una viva preoccupazione è la capacità di queste forze reazionarie, conservatrici e con una spiccata propensione all’autoritarismo democraturale di catalizzare il consenso tanto moderato quanto più propriamente popolare.
La saldatura di questi partiti xenofobi e autoritari si rafforza in seno ad una Europa sempre più meschinamente debole nei confronti dei revanchismi che emergono, priva di una solidità politica, in particolare modo sul piano internazionale, incapace di dare anche soltanto una risposta compromissoria tra capitale e lavoro ai grandi temi sociali della crisi su vasta scala che contempla guerre, riarmi e frantumazioni di intere porzioni di vecchie reti sociali di contenimento dei drammi quotidiani di decine di milioni di persone.
Quella saldatura diviene così un problema persistente, insistente e caparbiamente intenzionato a sviluppare una serie di contraddizioni in terne su temi sociali che fanno sembrare le forze di destra estrema come il bastione contro le ingiusizie liberiste, contro una Commissione europea che ottiene, nel suo rinnovo vonderlayano di pochi mesi fa, un consenso ampio, con al suo interno anche sponenti del gruppo dei Conservatori e Riformisti (il ministro Fitto di Fratelli d’Italia…).
Basta, è sufficiente questo a sbugiardare i partiti di una destra che si camaleontizza nel potere continentale e che vuole farne parte, pur declamando che non rinuncia alla preservazione del sacro interesse nazionale, anche quando entra in contrasto con quello comunitario? Evidentemente no, perché, se così fosse, il FPÖ di Kickl non sfiorerebbe il trenta per cento in Austria.
Quindi, come dovrebbe essere lapalissianamente e cristallinamente evidente, le radici delle diseguaglianze, profonde e inarrivabili alla sinistra moderna, si nutrono in un terreno fertile di destra che regala la percezione sensazionale della risoluzione di gran parte dei problemi sociali escludendo tutta una parte di società limitrofa e di mondi più lontani, non provando invece il confronto.
Le parole “invasione“, “islamizzazione“, “contaminazione” “ibridazione“, “sostituzione etnica” agiscono come propellenti di una spinta verso la seduzione di massa di milioni di lavoratrici e lavoratori, di precari, disoccupati e di sempre più poveri intimoriti dalle dimensioni delle grandi questioni dei nostri tempi: migrazioni e guerre prima di tutto.
Nel nome della fortezza Europa, della chiusura dei confini, dell’erezione di muri e della protezione del limes moderno dalle orde barbariche che ci arrivano addosso, le destre mietono successi, mentre la sinistra moderata e di alternativa fatica a riconnettersi con i suoi naturali interlocutori di classe.
In parte ciò è dovuto alle politiche di compromesso che socialdemocratici, socialisti ed anche ecologisti hanno messo in pratica con centrismi liberal-liberisti, confondendo così le popolazioni che non hanno più capito quali interessi stesse facendo la parte progressista dei diversi Stati europei. In parte, indubbiamente, l’eloquio populista è, in quanto tale, in grado di fare della semplicità del discorso il cuore delle proprie ragioni e viceversa.
Per quanto siano state già sperimentate le destre di governo, almeno in Italia negli ultimi trent’anni, nella Spagna del PP, nei tanti governi locali un po’ in tutte le nazioni del Vecchio continente, il ceto medio continua a scegliere le forze di opposizione più reazionarie che promettono una ricrescita economica che i governi, sotto il peso delle contraddizioni della crisi multilaterale e multistrato, non sono in grado di dare nel corso dei loro mandati.
C’è nel profondo dei motivi per cui le destre vincono e prevalgono un elemento fortemente legato alla dialettica sociale, al conflitto di classe che si tenta di invisibilizzare e di minimizzare: storicizzandolo, facendolo apparire come un retaggio del passato e presentando le diseguaglianze crescenti come il frutto di una destabilizzazione dovuta a politiche stataliste; mentre sono proprio le pulsioni liberiste a fomentare l’ampliarsi del divario della forbice tra poverissimi e ricchissimi.
La voragine a-sociale creata da una sinistra incapace di reggere l’urto della fine del bipolarismo USA-URSS, precipitandosi in una vorticosa voglia di governismo a tutti i costi, è stata il luogo di una geopolitica in cui, nel brodo di coltura di un revanchismo mai sopito delle vecchie dittature novecentesche, è riemerso un autoritarismo mascherato da nazionalismo e intriso anche di localismi esasperati come quelli del leghismo di seconda maniera, padaneggiate e non più antifascista e sociale.
La preparazione della via ad una nuova economia di mercato non è stata appannaggio e privilegio di una sola parte politica. Tanto a destra quanto a sinistra, come al centro, le politiche liberiste hanno surclassato quelle liberali e la linea del compromesso interclassista si è nettamente spostata sul piano esclusivo dell’impresa.
Spalleggiando il capitalismo moderno, la destra populista e reazionaria che possiamo osservare nelle sue varie declinazioni e mutazioni in Italia, Spagna, Francia, Germania, Austria e Ungheria, è il punto che diviene sempre più alto di rassicurazione di un appanicamento delle classi dirigenti, imprenditoriali e finanziarie spaventata della molteplicità della crisi: anzitutto da quella climatica, dall’infiammarsi delle guerre e dagli spostamenti che ne derivano.
La gestione di queste contraddizioni esige, come nel caso del FPÖ di Kickl una saldatura di nuovo tipo tra Stato e mercato, tra nazione e popolo, tra istituzioni e cittadinanza. Non è necessario superare le democrazie, ma renderle apparenti e date quasi per scontato, così da poterle trasformare in quelle “democrature” paventate già da decenni, dopo i tentativi di torsionismo autoritario del berlusconismo d’antan prima e i tanti slanci anticostituzionali dei suoi imitatori.
Il pericolo che la destra estrema si consolidi sulle fondamenta di un potere avvitato sulle proprie contraddizioni e irrimediabilmente separato dalla sua componente di controllo sociale, prevista dalle carte fondamentali degli Stati, dalle leggi supreme e anche da qualche norma non scritta, ma anglicamente tramandata di millennio in millennio, è oggi un pericolo reale. Non è uno spauracchio da agitare per squalificare la sinistra di alternativa e costringerla ad alleanze considerate “innaturali“.
La crisi è così incistata nel corpo del moderno liberismo che proprio la moderna evoluzione del capitale non riesce a darsi una soluzione. La cerca in una politica della disperazione che finisce col negare i diritti fondamentali degli esseri umani e di tutti gli altri esseri viventi. La vittoria dei partiti di estrema destra è conseguenza da un lato e premessa dall’altro per un tentativo di riequilibrio delle enormi contraddizioni del mercato globale e dei suoi riverberi sulle tante periferie del mondo.
In questa fase rivoluzionaria per la nuova borghesia imprenditoriale e per i ceti finanziari più elevati, la sinistra di classe non ha le forze per riemergere come unica interlocutrice di un mondo del lavoro fiaccato dalle controriforme, dalla distruzione delle regole sociali, atomizzato e vilipeso dalle finte politiche popolari delle destre, così come di troppi tentativi dei centrosinistra passati.
Bisogna tatticizzare la strategia e rendersi conto dei rapporti di forza: rimettere all’angolo le destre oggi di governo, ricacciandole nell’angolo della vergogna storica da cui provengono, dovrebbe essere un dovere di ogni italiano, di ogni persona che abbia a cuore unitamente diritti sociali, civili, morale e cultura repubblicana, laica e antifascista. Se è vero che esiste una pur timida maggioranza che si orienta in questa senso, le forze vanno unite.
Nelle differenze oggettive e inconciliabili. Sul lungo periodo. Ma nel breve momento in cui viviano, e che ci pare già fin troppo esteso sulla lina del tempo e che tanti danni sta facendo all’Italia del 2024, il frontismo progressista va recuperato a sé stesso. Con una sinistra moderata che però dimostri di essere sinistra. E non di fingerne le fattezze comportandosi poi da centro(destra) sul terreno prettamente socio-economico.
Fermare queste destre è un compito non solo dell’Italia del lavoro, dello studio, sociale e culturale. Diviene una premessa continentale per non finire come l’Argentina di Milei o come l’America dei Trump che hanno la forza di ricrescere grazie all’acquiescenza democratica nei confronti proprio di un capitalismo che, forse, mai come oggi hanno sposato con tanto fervore e nettezza. Il tempo è scaduto. Dunque non c’è più tempo da perdere.
La lezione austriaca oggi, così come quella che abbiamo in casa nostra, parlano a tutta la sinistra europea: dai socialdemocratici ai comunisti, dai socialisti agli ecologisti. Una vera unità su un programma minimo sarebbe già un grande risultato. Anche per evitare che centristi e iperliberisti alla Macron squalifichino ulteriormente il ruolo delle opposizioni con finti patti repubblicani.
Una nuova unità dal basso si crea non solo tramite le forze politiche, ma anzitutto con quelle sindacali e sociali. Di questo dobbiamo tenere sempre conto. La crisi economica è grande e altrettanto può essere la risposta di classe. Ma non vi si arriverà da soli, separandosi dal resto del mondo progressista; anche da quelle forze che giustamente consideriamo avversarie, ma che in questo frangente stanno dalla parte di una democrazia che non deve essere meramente formale.
Si tratta di una lezione dura che, proprio perché tale, dobbiamo apprendere con serietà. Rimanendo fermi sui nostri valori e princìpi, ma considerando sempre il tipo di utilità che vogliamo rappresentare per i moderni sfruttati che lo sono ogni giorno di più e che finiscono nel pozzo profondo dell’illusione salvifica dell’estrema destra.
MARCO SFERINI