Non sorprende la consonanza Starmer-Meloni sulle politiche migratore. Il Labour, soprattutto dopo la svolta anti-Corbyn, ha spesso assecondato le misure discriminatorie dei governi conservatori e la campagne suprematiste di stampo fascista

di Alberto Pantaloni

Hanno destato sorpresa le dichiarazioni del premier britannico Keir Starmer durante la conferenza stampa congiunta con la presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni, tenuta il 16 settembre scorso. I due governi coopereranno su immigrazione e sicurezza e questo sicuramente era uno degli obiettivi del leader laburista, visto come chiave per una ripresa delle relazioni con l’Unione europea. Sebbene il presunto interesse britannico per il “sistema Albania” ideato dall’esecutivo di centro-destra italiano sia stato in realtà dichiarato da Meloni (anzi Starmer ha precisato che la sua era una missione conoscitiva e che era del tutto prematuro dare dei giudizi), quel che è certo è che Sir Keir prima ha ringraziato pubblicamente il governo italiano per aver ridotto l’immigrazione «irregolare» del 60% e poi ha affermato che bisogna «fare tutto il possibile per smantellare le bande di trafficanti».

D’altronde Downing Street mostra molta attenzione a non adottare politiche che rappresentino aperte violazioni dei diritti umani e che potrebbero contravvenire al diritto internazionale, affossando definitivamente il vergognoso piano del precedente governo conservatore di inviare i richiedenti asilo in Ruanda in attesa dell’esito della richiesta. Tuttavia, esso non solo non ha del tutto escluso l’idea di gestire le richieste di asilo in un Paese terzo ma, “consigliato” dal suo deus ex machina Tony Blair, ha annunciato il dirottamento degli stanziamenti originariamente previsti per la deportazione in Ruanda verso la costituzione di una task force che impedisca le partenze dei barconi della disperazione dalle coste franco-olandesi. Soldi che si sommano ai quattro milioni di sterline per il “processo di Roma”, che vede il denaro andare verso stati autocratici e falliti. Ecco che quindi si capisce il senso di questo tour europeo di Starmer.

L’atteggiamento del governo laburista ha sorpreso e disorientato una parte dell’opinione pubblica di sinistra in Italia, che comprensibilmente e legittimamente si aspettava un forte segno di discontinuità coi Tories su immigrazione e razzismo. Soprattutto alla luce dell’ondata di riots razzisti che ha attraversato Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord l’agosto scorso, a seguito dell’assassinio di tre bambine a Southport (vicino Liverpool) da parte di un adolescente squilibrato durante un corso di danza con a tema le canzoni di Taylor Swift.

Numerosi sono stati, lo ricordiamo, gli assalti a moschee, attività commerciali (gestite prevalentemente da persone di religione islamica) e centri di accoglienza di richiedenti asilo un po’ in tutte le regioni dell’Inghilterra: non solo nella capitale Londra o nei grandi centri come Manchester, Liverpool, Belfast, Leeds e Sunderland, ma anche in zone dalla tradizione operaia come lo Yorkshire e la contea di Durham, o nel Sud un tempo florido come l’Hampshire.

Di fronte a questa ondata di riot razzisti, il premier Starmer riuniva il famoso Comitato Cobra e insieme al ministro dell’Interno David Hanson prometteva il pugno di ferro contro i neofascisti della English Defence League, della Patriotic Alternative e di altre formazioni: più di 1.000 persone sono state arrestate, processate e, alcune di loro, condannate anche a diversi anni di carcere. La narrazione dominante è stata che questi disordini sono stati provocati dagli estremisti di destra, chiamati a raccolta attraverso una campagna on line.

Manifestazione della English Defence League a Newcastle, Wikimedia Commons

La campagna “social”, tossica e zeppa di falsità, c’è sicuramente stata: i movimenti razzisti hanno diffuso l’informazione che il ragazzo fosse di religione islamica e arrivato in Gran Bretagna in un barcone attraverso la Manica, mentre invece è figlio di una coppia di origine ruandese e cristiana residente a Cardiff. Peraltro, in Gran Bretagna, per legge non si possono diffondere le generalità delle persone arrestate o indagate di reato, se minorenni. Tuttavia ricondurre tutto a qualche centinaio di estremisti di destra e pensare che una volta arrestati questi il problema si sia risolto è nel migliore dei casi una pia illusione, nel peggiore una lettura strumentale e ipocrita. Sicuramente, come ha ricordato anche Paul Whiteley dell’Università dell’Essex, è un’analisi semplicistica. In realtà nei fatti che si sono succeduti dall’agosto scorso fino alle recenti dichiarazioni di Starmer, si ritrovano elementi storici caratteristici di quell’anima razzista, della politica e della società britannica, prima imperiale e poi nazionale, che da almeno circa un secolo a questa parte si ripropongono a intervalli più o meno lunghi.

riot

Nel 1919, episodi di analoga gravità erano accaduti in diverse città britanniche (Londra, Glasgow, Salford, Hull, Cardiff e Liverpool), scatenati dalla percezione che gli stranieri rubassero il lavoro ai britannici che, tornati dalla Grande guerra, si erano ritrovati disoccupati; poco dopo lo smacco subito dal Regno Unito con la crisi del Canale di Suez nell’autunno del 1956, nell’estate del 1958 esplosero gravi tumulti, con assalti alle persone di colore a Nottingham e nel quartiere londinese di Notting Hill alle quali parteciparono migliaia di «Teddy boys», giovani bianchi e che provocarono cinque persone di origine caraibica ferite; il 17 maggio 1959, il giovane carpentiere Kelso Cochrane, proveniente dalla Indie Occidentali, fu aggredito e ucciso a coltellate da ragazzi bianchi. Sebbene diversi indizi portassero a gruppi suprematisti bianchi, non fu arrestato alcun colpevole. Eppure quello fu il periodo di incubazione e crescita di un movimento a carattere fascista e suprematista, composto da diverse organizzazioni, come l’Union Movement (UM), fondata da Oswald Mosley nel 1948 (uscito dal Labour Party nel 1931 per fondare la British Union of Fascists, un po’ il Mussolini albionico), la League of Empire Loyalists (LEL) di Arthur Kenneth Chesterton, fondata nel 1954, e la White Defence League (WDL), formata da Colin Jordan nel 1957. Nel 1967, Chesterton sarebbe poi diventato presidente del famigerato National Front, che imperversò in Inghilterra soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.

Il ruolo di media, politica e governo

Salvo qualche eccezione, i mezzi di informazione più intellettualmente onesti, pur genericamente parlando di «far-right» (estrema destra) e a volte addirittura di «fascism», in maggioranza hanno evitato di scrivere apertamente la realtà, e cioè che si trattava di attacchi e riot razzisti e islamofobi. Eppure, come ha ricordato la deputata laburista e socialista Zarah Sultana, «questi riots razzisti e islamofobi, non sono arrivati dal nulla. Essi sono il culmine di decenni in cui la politica e la stampa hanno diffuso il razzismo e seminato divisioni etniche e sociali. Nel 1955, Winston Churchill caratterizzò la propria campagna elettorale con la parola d’ordine palesemente razzista «Keep England White» e a partire da quella data sia gli esecutivi conservatori, sia quelli laburisti cercarono di introdurre misure, anche illegali e spesso col consenso e la collaborazione delle organizzazioni sindacali autoctone, che tendevano a scoraggiare l’immigrazione non bianca: il Commonwealth Immigrants Act, varato nel luglio 1962 dai conservatori e che autorizzava l’entrata nel Paese solo a chi fosse in possesso di un contratto di lavoro e alle famiglie di coloro che fossero già regolarmente nel Paese, fu ulteriormente inasprito nel 1968 (durante il governo laburista di Harold Wilson) e ancora nel 1971, di nuovo coi conservatori guidati da Edward Heath.

Per compensare l’introduzione e il rafforzamento delle misure di contrasto all’immigrazione, i governi laburisti portarono avanti una politica contro la discriminazione razziale attraverso il varo e l’implementazione del Race Relation Act fra il 1965 e il 1968.

Contro questi provvedimenti divenne tristemente famoso il «Rivers of blood speech» del deputato conservatore Enoch Powell che, puntando il dito contro il rischio di una nazione britannica «nera e marrone» a scapito dei bianchi, chiedeva il rimpatrio anche dei figli di chi era arrivato dalle Indie Occidentali, dall’Asia e dall’Africa negli anni Quaranta e Cinquanta, perché, al di là dei numeri, essi non si sarebbero mai accomunati ai bianchi.

Ancor più significativo fu però il razzismo operaio. Nonostante alcune timide iniziative di sostegno ai lavoratori neri da parte di alcune organizzazioni e nonostante il TUC desse appoggio formale ai delegati antirazzisti, di fatto il grosso del gruppo dirigente sindacale appoggiò prima il controllo dei flussi avviato dalla metà degli anni Cinquanta, poi si dichiarò contrario a ogni anche solo formale iniziativa legislativa di contrasto alla discriminazione razziale sui luoghi di lavoro, ritenendola divisiva del corpo operaio su un problema ritenuto tutto sommato trascurabile. Questa strategia sindacale accondiscendente e/o pilatesca nei confronti delle proteste operaie xenofobe, unita alla quasi impossibilità di mobilità sociale verso l’alto per la forza-lavoro immigrata, portò alla fine degli anni Sessanta in Gran Bretagna alla convivenza di due comunità e di due working class profondamente stratificate dal razzismo: una «black-british» e basata sul concetto di blackness, l’altra bianca frutto dell’equazione «bianchezza/britannicità», storicamente, politicamente ed economicamente costituite in opposizione l’una all’altra. Non a caso si sarebbe dovuto attendere il 1991 per avere un afrodiscendente (Bill Morris, di origini giamaicane) come segretario generale di un sindacato (la Transport and General Workers’ Union, oggi UNITE).

Questa «ghettizzazione di lungo periodo», come l’ha definita Simone Duranti, è andata avanti per i decenni successivi, partendo dal processo contro i «Mangrove Nine» nel 1969 e passando poi per gli scontri di Notting Hill nel 1976, quelli di Bristol nel 1980, il massacro di New Cross e gli scontri che ne seguirono a Brixton nel 1981, le battaglie di strada a Birmingham e Tottenham fra il 1980 e il 1986, fino ai riots di Londra del 2011. Una ghettizzazione che, come nei decenni precedenti, non ha visto come attori solo le formazioni di estrema destra o le forze di polizia, ma anche i due principali partiti del sistema politico britannico. Negli anni Dieci di questo secolo salirono alla ribalta le persone che da bambini o bambine che erano arrivate con le loro famiglie fra gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900 dai Caraibi per contribuire a colmare la carenza di manodopera nel Regno Unito del dopoguerra.

Le persone appartenenti a quella che fu chiamata la «Windrush Generation» (dal nome della nave Windrush, attraccata a Tilbury il 22 giugno 1948 e che portava 493 persone dalla Giamaica), furono riclassificate dal governo conservatore di Cameron come immigrati clandestini, pur essendo residenti di lungo periodo del tutto legali. Ribattezzato dai media «scandalo Windrush», questo episodio continua ad avere importanti strascichi ancora oggi. Ancora, il progetto di deportazione in Ruanda delle persone richiedenti asilo, lanciato dall’allora ministra dell’interno del governo Johnson, Priti Patel, e poi portata avanti da chi le è succeduta nel governo Sunak, cioè Suella Braverman, è già tristemente conosciuto.

Meno conosciuti sono i risultati di un’inchiesta interna del 2020 (il Rapporto Forde) sulla «normalizzazione razzista» portata avanti nel Partito laburista. Pubblicata il 19 luglio 2022 su indicazione di Starmer con l’obiettivo di far fuori Corbyn con la ridicola accusa di antisemitismo, questa inchiesta si è ritorta contro l’attuale gruppo dirigente blairiano, scoperchiando un vero e proprio vaso di Pandora, ma di schifezze. Dal rapporto è emerso che parlamentari del Labour Party come Dawn Butler, Diane Abbott, Apsana Begum, Clive Lewis, Zarah Sultana, Kate Osamor vengono costantemente derise e insultate in modo razzista, islamofobo e sessista dai membri del quartier generale del partito. Dal 2020, quindi ben prima del genocidio perpetrato da Israele a Gaza, il 55% dei membri musulmani del partito non si fidava più dello stesso e i giovani afrodiscendenti lo stavano già lasciando in massa. Di fronte a questa situazione che definire vergognosa è un eufemismo, di fronte alle denunce interne (40 solo della Begum), di fronte alle possibili soluzioni offerte da Forde – tra cui una maggiore trasparenza nel reclutamento, nella formazione, nella conduzione di esercizi di ascolto approfondito e nella revisione dei codici di condotta – Starmer finora ha fatto quello che gli riesce meglio: niente. E ancora adesso, è la stessa Diane Abbott, decana della rappresentanza afrodiscendente alla House of Commons, ha lanciato un preoccupatissimo allarme sulle conseguenze che le politiche di guerra e di austerità del governo Starmer avranno in termini di razzismo.

Manifestazione Stand Up to Racism Uk del 10 agosto, su Instagram

Razzismo istituzionale vs antirazzismo dei movimenti

Non si tratta quindi del proverbiale pragmatismo anglosassone: storicamente i governi britannici hanno cercato sempre di frenare l’immigrazione prima dalle ex-colonie del Commonwealth e poi in generale da Africa ed Asia, cavalcando alla fine una narrazione basata sul concetto di “bianchezza” della nazione. Mentre i governi conservatori hanno perseguito questo obiettivo cavalcando il razzismo e la xenofobia popolari frutto sia delle frustrazioni seguito al crollo dell’impero sia dell’azione dei gruppi neofascisti, quelli laburisti, che non hanno mai abolito i decreti varati dai Tories, hanno cercato di compensare queste misure con altrettante improntate all’antirazzismo e al multiculturalismo, non aggredendo tuttavia i nodi critici costituiti dalle discriminazioni di razza in materia di lavoro e di educazione dalle ghettizzazioni urbane.

Tuttavia, anche le reazioni antirazziste dei movimenti e della società civile britannici restituiscono un po’ di positività. La coalizione Stand Up To Racism  sta organizzando da agosto decine di manifestazioni e assemblee antirazziste in diverse città: i prossimi appuntamenti nazionali sono previsti il 28 settembre e il 24 ottobre a Londra. La coalizione coinvolge soprattutto le organizzazioni sindacali, la sinistra laburista e i gruppi mutualisti e di solidarietà, e sta tenendo alta la guardia impedendo una deriva razzista incontrollata.

Questa capacità di mobilitazione dei settori democratici e progressisti sarà fondamentale nel mettere sotto pressione un governo che pensa tutto si possa risolvere solo con punizioni giudiziarie esemplari. Anche su questo aspetto c’è una lunga tradizione storica che accompagna il Paese, dalla battaglia di Cable Street nell’ottobre del 1936 fino alla rivolta di Londra del 2011. Lo ha ricordato proprio il 3 agosto scorso a Belfast Mick Lynch, segretario anglo-irlandese della National Union of Rail, Maritime and Transport Workers: «Ogni generazione della nostra classe deve combattere queste battaglie ancora e ancora. Le abbiamo combattute negli anni Trenta, le abbiamo combattute nei Cinquanta, le abbiamo combattute negli anni Settanta in Gran Bretagna. Non permetteremo mai alla destra di dominare le nostre working class communities.

Immagine di copertina: Number 10 su flickr

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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