Il 7 ottobre 2023 circa milleseicento cittadini israeliani sono stati coinvolti in una operazione criminale e terroristica di Hamas: milleduecento di loro, abitanti dei kibbutz intorno al confine con la Striscia di Gaza, sono stati spietatamente stati trucidati dai miliziani jihadisti; altri duecento sono scomparsi; duecentocinquanta sono stati rapiti.
Questa eclatante e sorprendente azione ha gettato lo Stato ebraico nel panico: le sue truppe più numerose erano di stanza in Cisgiordania a sostenere l’espansionismo violento dei coloni sionisti. I suoi servizi segreti interni non hanno preventivato la minaccia di Hamas e l’attacco è divenuto, per numero di morti e per lo shock internazionale, una data sparticque nella storia attuale del conflitto israelo-palestinese.
Abbiamo un po’ tutti compreso, e successivamente convenuto, che gli obiettivi di Hamas erano quelli di provocare almeno due tipi di conseguenze: la rottura dei “patti di Abramo” tra Tel Aviv e i paesi arabi con cui era stata stabilita una cooperazione su vasta scala, anzitutto economica; la reazione rabbiosa di Israele per inanellare una nuova guerra e perseguire l’obiettivo di rimescolare le carte mediorientali dal punto di vista iraniano-sciita.
In questa storia recente, per poterla comprendere, bisogna tenere conto anzitutto dei fatti riguardanti gli ultimi cinquant’anni di un Novecento in cui la Palestina è passata dal dominio ottomano al protettorato britannico e poi, dopo la Seconda guerra mondiale, ad un piano di spartizione ONU tra Stato arabo e Stato ebraico. Ma, prima di tutto, ciò che dovrebbe riguardare la complessa disarticolazione degli avvenimenti di oggi è il vellicamento operato proprio dai governi dell’estrema destra israeliana nei confronti di Hamas.
Per depotenziare l’ANP, è stato dato un sostegno ad Hamas pari pari, o quanto meno simile, a quello che gli Stati Uniti davano ai combattenti afghani in funzione antisovietica o ai ribelli in Iraq, Siria, Somalia, Libia e Tunisia contro i regimi non amici, per creare le precondizioni di una nuova egemonia a stelle e strisce su vaste aree del pianeta sfuggite al controllo economico, militare e politico dell’Occidente.
A distanza di un anno dai tragici eventi del 7 ottobre 2023, la reazione israeliana all’attacco di Hamas ha superato qualunque ritorsione, qualunque immaginabile rappresaglia, qualunque atto di guerra asimmetrica e si è trasformato in una politica oggettivamente terroristica e genocidiaria: da Gaza alla Cisgiordania, dalle alture del Golan alla penetrazione del territorio libanese e l’apertura del fronte contro quel fanatico Partito di Dio guidato, fino a pochi giorni fa, prima della sua uccisione, da Nasrallah.
L’invasione della Striscia di Gaza, i bombardamenti a tappeto, la distruzione di quasi tutte le case e le infrastrutture, la violazione di ogni principio del diritto internazionale e di ogni elementare diritto umanitario, hanno, soprattutto nel corso di quest’ultimo anno, dato ad Israele tutti i parametri per essere connotato come uno Stato terrorista, al pari del terrorismo portato da Hamas nel suo territorio quel fatidico e dirimente 7 ottobre.
Se, come si dovrebbe fare, un bilancio è opportuno dopo un anno di guerra e di stermini, un dato salta inequivocabilmente agli occhi e alla mente: Hamas non è stata debellata, così come proclamava Benjamin Netanyahu insieme ai suoi ministri. I tentativi di mostrare all’opinione pubblica israeliana la conquista di Rafah come “l’ultima roccaforte” del gruppo palestinese jihadista, è sfumato nel momento in cui non ha avuto come conseguenza la fine delle ostilità e la liberazione degli ostaggi.
Quando Israele, però, ha preso il controllo del valico tra Striscia di Gaza ed Egitto, ha in pratica tagliato ogni via di fuga possibile. Non tanto per i dirigenti e le milizie di Hamas che non verrebbero mai lasciate entrare nella penisola del Sinai; quanto per il milione di sfollati palestinesi che premeva alle porte di quel passaggio per cercare una via di salvezza e aveva trovato, proprio a ridosso del confine, un lembo di terra in cui i bombardamenti sembravano non arrivare.
Poi è arrivato Tsahal e il cerchio, almeno a Gaza, si è chiuso. Ma le operazioni militari continuano, segno che Hamas ha una capacità di resistenza notevole, tenuto conto che in quel lembo di terra niente entra e niente esce se non lo viole Israele e che, quindi, l’assedio è pressoché totale. Analisti di rinomata fama si sono chiesti come possa il gruppo jihadista continuare a sfuggire alle truppe di Tel Aviv e come possa continuare a combattere. La risposta, probabilmente, non è una soltato.
Di certo manca una strategia politico-militare per il dopoguerra e, quindi, Israele sembra prolungare i tempi del conflitto per fare in modo di studiare una via d’uscita dal pantano di Gaza ed evitare a Netanyahu un rovinoso crollo dopo aver ridato fiato all’esercito nelle operazioni di terra e all’aviazione in quelle centinaia e centinaia di azioni che hanno annichilito il territorio palestinese.
Così, dopo il fronte mobile contro gli Houthi, il governo dell’estremissima destra israeliana ha ritenuto opportuno mettere in essere tutta una serie di azioni provocatorie, e per questo fortemente impattanti anche sulla catena di comando tanto dei pasdaran iraniani quanto di Hezbollah, pur registrando al proprio interno forti tensioni e anche dissensi.
Ad iniziare dalle prospettive immediatamente future di Gaza. Su questo terreno il divario tra Netanyahu e Gantz è piuttosto marcato: l’uno vuole l’occupazione militare e politica della Striscia, l’altro ritiene impossibile l’esilio dei palestinesi nel Sinai e l’israelizzazione ipotizzata.
Tanto più che una politica di ricolonizzazione di Gaza e di insediamento di un governo militare, così come concepito dal primo ministro israeliano, non farebbe altro se non ringalluzzire le milizie di Hamas, rimpolpando le sue fila con tanti giovani che oggi hanno le viscere segnate dall’odio profondo nei confronti dello Stato ebraico e di ogni suo abitante. Si tratta della stessa estremizzazione che Hamas ha voluto scatenare in Israele e che è stata per lunghi mesi maggioritaria nell’opinione pubblica.
Soltanto la questione degli ostaggi ha impedito che continuasse ad esserlo e, infatti, ha dato luogo ad una serie di manifestazioni di protesta che non sono finite e che sono arrivate fin dentro la Knesset. Proprio il prolungamento del conflitto rende, del resto, ancora più oggettivo il fatto che la liberazione degli ostaggi non la si potrà ottenere manu militari.
Ed il dilemma per Netanyahu si fa importante: prima di tutto perché, pur alzando il livello della pressione militare a Gaza, Hamas non cede e non rilascia gli ostaggi che, per la maggiore, muoiono a causa delle bombe “amiche“.
La tragedia si avvita su sé stessa e non fa che aprire scenari di conflittualità permanente nell’area mediorientale. Qui si pone nuovamente il problema che Israele ha di una vera strategia di lungo corso: pare invece rincorrere ciò che accade e rintuzzare per esacerbare gli animi iraniani e trascinare Teheran in una vera e propria guerra, questa volta simmetrica. Tanto più che la “prudenza” (chiamiamola così…) di Khamenei si scontra con le ali più intransigenti del regime teocratico degli ayatollah.
Pare sempre più lampante il fatto che gran parte della soluzione di questa somma di problematiche interne ed esterne ad Israele è legata alla tenuta o meno del gabinetto di guerra di Netanyahu. La fine dell’esecutivo aprirebbe, quanto meno, uno scenario differente in termini di proseguimento dei conflitti aperti su tre caldissimi fronti.
Il quarto, quello cisgiordano, somiglia sempre di più ad una faccenda tutta interna che si vuole isolare e reprimere, ipotizzando anche qui o l’esilio della popolazione palestinese o il restringimento in “riserve” in stile indiano, sempre più compresse e sempre meno vivibili. La premessa ad una ipotesi (necessaria ed augurabile) di periodo postbellico è: date le condizioni attuali, Israele con chi si relazionerebbe per amministrare i Territori occupati?
Stando così le cose, l’unico interlocutore possibile, ovviamente escluso Hamas, è L’Autorità Nazionale di Abu Mazen. Debole, senescente, priva di un mordente nei confronti del popolo che vuole rappresentare. Ma rimane l’unica soluzione intravedibile al momento: soprattutto a Gaza, un governo dell’ANP, sostenuto da Stati Uniti, Stati arabi e ONU, sarebbe il presupposto minimo per una transizione che, però, per poter essere attuata necessita dell’abbandono e dell’evacuazione di tutte le truppe israeliane.
Si rischia uno scollegamento con la questione Cisgiordana che rimane il cuore del problema della nascita di uno Stato palestinese accanto a quello ebraico. Per quanto impopolare possa essere oggi, la soluzione dei “due popoli, due Stati“, è e rimane l’unica possibile nel medio-breve termine. Un amalgama confederativo sul piano istituzionale e una doppia cittadinanza in un’unica nazione organizzata in Stato, è francamente un’utopia se raffrontata alla spessa coltre d’odio che la guerra ha rimesso in circolo.
Ed è, in tutta probabilità, anche la soluzione che ad Israele può convenire di più. Si deve, purtroppo, ragionare in termini di convenienza anche di uno regime terrorista e genocida come quello che porta la guerra e i crimini contro l’umanità in territori che, invece, dovrebbe contribuire a pacificare e a gestire unitamente al sostegno internazionale.
Israele fa ciò che gli conviene per stabilire una sicurezza solo per sé stesso e, quindi, se, alla fine, i due Stati fosse l’unica opzione possibile, col permesso naturalmente di Washington, quella opzione potrebbe avere una possibilità di concretizzazione nel prossimo futuro. Ma, al momento, la guerra imperversa e si esponenzializza. Israele non ha nessuna intenzione di fermarsi.
Dopo un anno di conflitti, sono morti cinquantamila palestinesi, ne sono stati feriti oltre duecentomila. Gaza, Khan Yunis e Rafah sono praticamente distrutte e solo un lembo di “zona umanitaria” ad ovest sembra resistere a ridosso di un mare che non è sinonimo di libertà, ma plastica evidenza di un muro d’acqua messo a guardia della prigione gazawita. La maggior parte dei civili morti sono bambini. Ed ora, il conflitto in Libano lascia presagire che questa storia genocidiaria si possa ripetere.
Senza la fine del governo Netanyahu non c’è alcuna possibilità di considerare la fine della guerra in tempi relativamente brevi. Il conflitto si trascinerà in un tira e molla fatto di lanci di missili da Teheran, di rappresaglie israeliane su siti nucleari o su basi militari iraniane nell’asse persiano che va dal Libano fino all’Afghanistan.
Per quanto possa avanzare, Israele ha già perso: si è ritagliato, al momento, un posto nella Storia non come unica democrazia del Medio Oriente, ma come Stato canaglia, come Stato che applica il terrore della repressione coloniale in Cisgiordania e di quella genocidiaria a Gaza. Impedire agli ospedali di funzionare, attaccare le ambulanze con i feriti, bloccare i rifornimenti al valico di Rafah, è come bombardare.
Si uccide in molti modi e poi si fa il giro del mondo a dire: noi siamo d’esempio per tutte e tutti, perché vogliamo affermare la nostra sicurezza entro i princìpi democratici. Il tutto sterminando un popolo che, se si seguono i dettami religiosi ebraici, purtroppo non è “eletto“.
MARCO SFERINI