Qualche giorno fa il Presidente Mattarella ha incontrato al Quirinale le agenzie di stampa per sostenere l’ovvio: che la libera informazione è consustanziale all’essere della democrazia. Un appello accorato, avvalorato anche dalla postura del Presidente che ha parlato dal leggio perché – ha spiegato – «le istituzioni devono avere rispetto per la stampa e parlare in piedi». Poi il discorso è proseguito sulla linea dell’ovvio e, dunque, ci stava anche l’evocazione della nuova dimensione dell’informazione consegnata, in larga parte, a piattaforme digitali e all’intelligenza artificiale. E in linea anche la conclusione nel nome dei diritti fondamentali: la tecnologia deve implementare le possibilità dell’informazione libera e consapevole, non renderla fittizia o manipolatoria. In gioco vi sono «diritti irrinunciabili». Un tono alto, da Costituente.

 E allora come non dare ragione a Sergio Mattarella? Le cose stanno certamente così. Ma non solo così. Non solo tutelando editori e giornalisti dai poteri in campo, quelli pubblici e visibili e quelli invisibili, pubblici e privati, avremmo ciò che tutti desideriamo: un’informazione libera e di qualità. Non bastano i proclami, non bastano le leggi per rendere immune l’informazione dal pericolo di essere ‘tossica’: l’indipendenza non si realizza solo in grazia del contenimento dell’azione invasiva di istituzioni e big players.

 L’indipendenza dipende innanzi tutto dalla disposizione verso di essa da parte di chi informa: scrivendo, parlando, muovendosi nello spazio pubblico, da indipendenti e anche da informati, cioè da competenti. Di ciò, mi pare, il pur apprezzabile discorso del Presidente nulla dice. Come mai? Forse perché realizzare una tale disposizione è ritenuta una missione impossibile. Forse perché si esigerebbero condotte incoercibili. Forse perché si finirebbe con l’andare in urto con un ceto – giornalisti, editori, agenzie di stampa– potente e pure pericoloso per chi è in politica.

 Ma se chi deve informare non sia acculturato a sufficienza e sufficientemente forte rispetto alle lusinghe provenienti dall’esterno, dal desiderio di scoop e simili, dalle ambizioni di carriera e notorietà, insomma se gli informatori non siano capaci di resistere innanzi tutto alle pulsioni personali, l’indipendenza sarà sempre a rischio, nonostante le leggi, i diritti consacrati in testi costituzionali, le alte allocuzioni dei vertici istituzionali.

 Chi informa – o lavora nell’informazione – deve essere molto preparato e addestrato, convinto, motivato a resistere a sé stesso innanzi a tutti. E da questo non irrilevante punto di vista si fa poco o nulla. Addirittura se ne omette di parlare. Eppure pensiamo alle notizie che ci vengono propinate in questo periodo, a quelle ritenute – dagli informatori – più rilevanti, a come ci vengono presentate: difficilmente o mai si scava dentro di esse, si ricerca la causalità dei fatti nei tempi lunghi della storia; invece si omette di dire quel che pur si sa, ma che è scomodo, che finisce col cozzare con visioni, paradigmi, valutazioni consolidate, anche se parziali o parzialissime.

 Chi va a fondo della questione israelo-palestinese? O di quello russo-ucraina? O, rimanendo tra noi, dei femminicidi? Perché si parla solo di diritti e non ci si domanda mai se, per avventura, la nostra Costituzione abbia considerato poco i doveri e quali possono essere le conseguenze di questa parzialità?

 Si offre sì qualche spiegazione, si indica qualche catena causale. Ma si tacciono altre possibili spiegazioni, si omettono altre catene causali. Insomma questioni del genere sono ben più complesse di quel che appare; e mettere in campo questa complessità significherebbe introdurre eventuali profili di colpa che non si vuole proprio introdurre. L’impressione è che ci si arresti perché c’è calcolo, opportunismo, talora timore o, peggio, paura. O più semplicemente perché andare controcorrente è qualità di pochi e, oggi, questi pochi sono oscurati.

 Ci raccontano che le università italiane sono eccellenti, in progressione continua. Ma le cose stanno veramente così? Considerare, per esempio, il livello di preparazione medio dei nostri laureati e introdurre una conseguente valutazione sarebbe fuori luogo? È corretto insistere sui problemi psicologici delle ultime generazioni senza mai relazionarne l’insorgenza con il lievitare del numero degli psicologi e il con gran fascino di questa disciplina che promette molto? È adeguato accogliere le matricole universitarie dicendo di non preoccuparsi e garantendo loro che, durante gli anni di università, si divertiranno molto? È cosa buona che l’università li premi, qualora prendano un bel voto, offrendo loro uno spritz, cioè un alcoolico?

 Insomma, ci siamo capiti. Non c’è libera informazione se certi temi, non irrilevanti ma caratterizzanti la nostra società, non possono essere presentati e affrontati o non possono esserlo nella loro totalità: espungerli o mutilarli è o non è in contrasto con la libera informazione?

 Mi auguro che anche di ciò vorrà parlare la prossima volta il Presidente Mattarella affrontando la questione cruciale della libertà d’informazione in Italia. Ma forse aveva ragione Hannah Arendt constatando – in Verità e politica – che considerare le cose, la politica in particolare, dal punto di vista della verità o, meglio dell’assenza di menzogne o riserve mentali, implica quale conseguenza il collocarsi al di fuori della dimensione politica. Forse è così. Ma la prudenza, che ne deriverebbe ad evitare la marginalizzazione, meglio l’allineamento alla tavola valoriale o pseudo-valoriale che verrebbe in tal modo ad imporsi, anche tacitamente, agli informatori, può giudicarsi compatibile con  un sistema autenticamente democratico?

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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