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L’italiana Leonardo e la tedesca Rheinmetall formano una joint venture. Una notizia che preoccupa il mondo di finanza etica e pacifismo
Andrea Di Turi
Nei giorni scorsi l’annuncio ufficiale: Leonardo, principale azienda produttrice di armi in Italia, e la tedesca Rheinmetall, altro colosso del settore degli armamenti, daranno vita alla joint venture Leonardo Rheinmetall Military Vehicles. Si occuperà di soddisfare la mega-commessa da circa 20 miliardi di euro ricevuta dal governo italiano per rinnovare il parco carri armati dell’esercito.
«Si tratta di un passo significativo verso la creazione di un sistema della difesa europeo», ha annunciato l’amministratore delegato di Leonardo ed ex-ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani. Ma non è una buona notizia per chiunque rifiuti il mantra della narrazione bellicista imperante («se vuoi la pace, prepara la guerra»), e sostenga invece che «se vuoi la pace, investi nella pace». Soprattutto non lo è per chi si riconosce nei valori della finanza etica e del pacifismo fra i quali, com’è ovvio, esistono connessioni profonde.
La joint venture tra Leonardo e Rheinmetall: «passo significativo» o «disgrazia»?
«È una disgrazia», dice Simone Siliani, direttore di Fondazione Finanza Etica, che con Leonardo e Rheinmetall è impegnata in iniziative di azionariato critico. «A livello europeo da tempo si spinge per una maggiore integrazione fra le imprese del settore. Lo dice anche il rapporto Draghi presentato di recente alla Commissione europea», spiega.
Quelle della difesa sono imprese con rapporti molto stretti coi rispettivi Stati, o perché partecipate, o perché comunque legate a decisioni dei governi. Abituate a competere, ora sono spinte invece a collaborare. La giustificazione è che per l’Unione europea, secondo i Trattati, questa collaborazione sarebbe l’unica strada per un suo impegno diretto, anche in senso economico, nel settore difesa.
«Noi siamo contrarissimi per vari motivi», sottolinea Siliani. «Primo, perché in questo modo sia l’Unione europea, sia i singoli Stati destinano al settore risorse pubbliche che vengono sviate da altre priorità. Poi, ed è una considerazione neutra, è un settore a bassa intensità di lavoro, per cui a parità di finanziamenti l’impatto sull’occupazione è minore. Infine perché maggiore è l’offerta di armi, maggiore è la spinta a utilizzarle, che poi di nuovo stimola l’offerta. È un circolo vizioso che non considera che il principale output delle guerre è la perdita di vite umane e la distruzione dei beni essenziali per la vita».
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Sulle armi è finanza etica VS finanza Esg
Ma c’è di più e il rapporto di Draghi lo dice esplicitamente dove suggerisce (a pagina 161-169) che l’Unione europea dovrebbe favorire un’interpretazione univoca dei criteri Esg (ambientali, sociali e di governance) per far sì che le aziende del settore difesa possano rientrarvi. «Questa è una cosa gravissima», afferma Siliani. «Non si capisce come le armi possano rappresentare un settore compatibile con la sostenibilità, quanto meno con quella sociale, sebbene anche i danni ambientali che provocano siano alti. Pensare che questo settore possa essere compatibile coi criteri Esg dal punto di vista della normativa europea in materia è profondamente sbagliato. Sarebbe un disastro».
C’è insomma il rischio che sulle armi la già ampia distanza tra la finanza sostenibile o Esg e la finanza etica diventi incolmabile. Che si distolgano risorse che potrebbero orientarsi verso settori e attività autenticamente sostenibili. E che si crei enorme confusione nei cittadini piccoli risparmiatori. «Noi evidenziamo da tempo la differenza tra la finanza etica e la finanza sostenibile così com’è disegnata oggi dal legislatore europeo», conclude Siliani. «La finanza etica ha un approccio olistico che tiene conto dell’insieme degli impatti delle decisioni d’investimento, quella sostenibile ha un approccio settorializzato in cui tra l’altro si infilano forti contraddizioni, che a volte diventano slogan con cui far passare un po’ tutto. Chiunque capisce che le armi non possono essere sostenibili».
L’impatto su occupazione ed escalation bellica
Anche Antonio Mazzeo, giornalista e peace researcher dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, esprime forti perplessità sull’accordo tra Leonardo e Rheinmetall. «Fa sorgere molte domande: oltre alle mega-commessa – si chiede Mazzeo -, c’è un piano di sviluppo? C’è stata una discussione in sede di governo, visto che Leonardo è controllata al 30% dal MEF, o una valutazione da parte delle organizzazioni sindacali? Non mi pare. A guadagnarci sono soprattutto i tedeschi che rafforzano enormemente la loro presenza in Italia, dove Rheinmetall già controlla RWM, azienda tra l’altro finita sotto inchiesta negli anni passati per il trasferimento di armi all’Arabia Saudita».
A preoccupare sono in particolare gli impatti sull’occupazione. «Rheinmetall punta alla leadership nei sistemi di guerra classici», prosegue Mazzeo. «A La Spezia, sede operativa della joint-venture, la OTO Melara del gruppo Leonardo produce ad esempio i cannoni in forza alla marina militare israeliana. Invece Leonardo punta all’aerospazio, a cybersecurity e intelligenza artificiale. Nutro dubbi sulla tenuta reale dell’accordo e soprattutto sulle conseguenze nel medio periodo sull’occupazione degli stabilimenti di La Spezia, città che da anni subisce l’enorme pressione del complesso militare industriale».
In un momento in cui si discute di tagli nella manovra finanziaria, inoltre, destinare miliardi al settore difesa non sembra proprio un tentativo di frenare l’escalation bellica sotto gli occhi di tutti. «Mi auguro – conclude Mazzeo – che la protesta cresca. Non possiamo accettare la conversione dell’economia a scopi militari».