All’assemblea degli azionisti di Nike, la maggioranza vota contro il rispetto dei diritti dei lavoratori. Il caso di Cambogia e Thailandia

Maurizio Bongioanni

Nike sta attraversando un periodo turbolento. Non solo per le difficoltà economiche, ma anche per la crescente pressione da parte degli azionisti sul rispetto dei diritti umani nella sua catena di fornitura. Nonostante le criticità sollevate da investitori attenti ai temi sociali, l’assemblea generale del 10 settembre ha visto la maggioranza degli azionisti votare contro due proposte chiave che miravano a rafforzare gli accordi vincolanti con i lavoratori della supply chain.

Nike non paga gli stipendi arretrati a 4mila lavoratori del sud-est asiatico

Una delle proposte principali, avanzata da un gruppo di investitori guidato dal Domini Impact Equity Fund, chiedeva a Nike di aderire ad accordi vincolanti con i lavoratori della catena di fornitura. Specialmente nei Paesi ad alto rischio. L’obiettivo era quello di affrontare in modo più incisivo le problematiche legate ai diritti umani, come lo sfruttamento del lavoro forzato e il mancato pagamento dei salari. Questa richiesta è nata in seguito a una lettera firmata lo scorso anno da oltre 60 investitori, tra cui Domini, che sollecitavano Nike a pagare 2,2 milioni di dollari di stipendi arretrati a circa 4mila lavoratori tessili in Cambogia e Thailandia. Nonostante l’urgenza delle problematiche, l’assemblea ha respinto la proposta.

Bocciata anche un’altra risoluzione, promossa dall’investitore britannico Tulipshare per il secondo anno consecutivo. Questa proposta sollecitava Nike a valutare l’efficacia della gestione della sua catena di approvvigionamento, con particolare attenzione ai rischi di lavoro forzato e furto di salari. Nel 2023, quasi l’80% degli azionisti l’aveva respinta. Anche quest’anno, la maggioranza ha deciso di seguire la raccomandazione del consiglio di amministrazione di Nike, che aveva suggerito di votare contro entrambe le proposte

La posizione di Nike e le critiche degli investitori

Nike ha difeso la propria posizione, sostenendo di aver già stabilito «robusti controlli» per identificare e affrontare le problematiche nella sua catena di fornitura. Tuttavia, gli investitori attivi nei temi della sostenibilità sociale, come Domini e Tulipshare, ritengono che queste misure siano insufficienti a fronte di rischi crescenti. La proposta di Domini chiedeva anche di pubblicare un rapporto sull’impatto dell’adozione di modelli di “responsabilità sociale guidata dai lavoratori” (Worker-driven Social Responsibility, WSR), che prevede accordi vincolanti tra i lavoratori e l’azienda in materia di sicurezza e tutele.

Domini ha inoltre chiesto a Nike di spiegare perché non ha aderito al Pakistan Accord, un accordo vincolante sulla salute e sicurezza tra sindacati e marchi di moda, che ha già ottenuto il sostegno di concorrenti come Adidas e Puma.

Le sfide economiche e l’innovazione in ritardo

Oltre alle pressioni sui temi sociali, Nike si trova a fronteggiare una crescente concorrenza nel mercato. Marchi emergenti come On, sostenuto da Roger Federer, e Hoka di Decker Outdoor stanno guadagnando terreno, mettendo in luce un rallentamento nell’innovazione del colosso americano. Questo, unito alle controversie sulla gestione della catena di fornitura, sta mettendo a dura prova il modello di business di Nike.

Nonostante i risultati delle votazioni degli azionisti non siano legalmente vincolanti, una significativa opposizione interna può spesso spingere l’azienda a rivalutare le proprie strategie e ad adottare misure correttive per evitare future controversie. Staremo a vedere se questo accadrà anche all’interno della multinazionale americana.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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