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L’impressione è che lo stilema che ha caratterizzato fino a qualche tempo la politica italiana sia tendenzialmente cambiato: i partiti personali, per intenderci, non sono certamente venuti meno in quanto a mutazione profondamente genetica del senso stesso delle formazioni politiche concepite nella Carta del 1948; ma è abbastanza evidente che qualcosa sia sostanzialmente mutato o che, forse, stia attraversando un processo di deformazione, di alterazione e, quindi, di involuzione o evoluzione a seconda dei casi e delle interpretazioni.
I nomi dei leader sui simboli dei partiti si sono più rarefatti: a parte quando si tratta di elezioni locali, amministrative tanto regionali quanto comunali, dove la “civicità” è quell’elemento preordinante le coalizioni che assumono una connotazione di terzietà rispetto alle posizioni che in realtà hanno. Per cui il nome del candidato sindaco o dell’aspirante presidente di regione diventa il manifesto politico dei raggruppamenti che concorrono al voto. Ma la “leaderizzazione” bulimica di qualche decennio fa è andata progressivamente scemando.
Oggi il personalismo partitico gareggia con un ritorno delle posizioni politiche propriamente dette: si ricercano nuovamente i programmi o, per meglio dire, le differenze tra i diversi campi. Non si tratta probabilmente di una vera e propria svolta culturale, che ci riporta un po’ alla buona costruzione della partecipazione dal basso, ma la furia individualista degli ultimi decenni pare essersi compostamente attenuata sulla spinta di una necessità di riorganizzare le fila. La consunzione dei consensi ha indotto verso una riconsiderazione del rapporto con le idee e con, persino, le ideologie.
Si è tornati a parlare di progressismo da un lato, di conservatorismo dall’altro: due termini che non scontentano chi è chiamato ad interpretarli e che permettono al giornalismo di separare i settori per sommi capi e di lasciare intendere che, in fondo in fondo, la tentazione bipolarista non è venuta meno perché, in pratica, il progetto neo-centrista è, almeno per il momento, fallito. Le divisioni tra Renzi e Calenda ne hanno sancito il rinvio della composizione ad un sine die assolutamente imprevedibile, contribuendo ad impedire che Forza Italia avesse un timidissimo alibi per sganciarsi dal centrodestra e prendere parte ad una nuova avventura.
Ma la svolta dal partito smargiassamente iper-personalistico alla forza politica rappresentata da un leader riconosciuto che rispetta un principio democratico e di collaborazione collettiva, ha ripreso fiato negli ultimi tempi con i cambi di guida, almeno nel campo cosiddetto “progressista“, con Elly Schlein e Giuseppe Conte, nonché con la felice intuizione unitaria tra Sinistra Italiana ed Europa Verde che ha riaperto uno spazio politico a sinistra del PD che un tempo era di Rifondazione Comunista. L’archiviazione del grillismo e del renzismo ne è stata l’importante premessa.
Se non fosse che tutto ciò è figlio della crisi strutturale di un sistema politico la cui agenda è dettata dall’economicismo europeo e dal solco atlantista tracciato dal neobellicismo di questi tempi, ci si potrebbe rallegrare del fatto che due importati partiti politici italiani abbiano scelto di abbandonare l’identificazione totalizzante del carisma laderistico per mostrarsi come forze capaci di ritessere un rapporto con la base che gli è direttamente di riferimento, quindi con i loro iscritti, così come con simpatizzanti ed elettori.
Non c’è nessun dubbio sul fatto che Schlein e Conte, ed in particolare quest’ultimo, abbiano agito per separare il passato recente dal presente e per dare tanto al PD quanto al Movimento 5 Stelle una fisiognomica differente, che consentisse una percezione diffusa direttamente ispirata ad un pluralismo di voci interne e corali al tempo stesso. Una polifonia vissuta e fatta vivere come elemento dialettico positivo, come ritrovata stagione del dialogo tra le differenze e della necessità della sintesi interna per offrire esternamente un programma dal carattere unitario.
Qui non si tratta di valutare politicamente il tutto, ma di trarre solamente lo spunto per considerare che nell’era del melonismo, dove la teorizzazione e il tentativo di proseguire sulla strada della controriforma premieristica sono sempre piuttosto ingombranti e forti, c’è, se non proprio la presa d’atto, quanto meno la rivalutazione del partito politico di massa in cui il segretario o il presidente sono l’emblema della congiunzione, il punto in cui si esprimono le volontà condivise e in cui, quindi, la linea politica prende forma e voce.
Dove nasce la stortura che impedisce a tutto questo di diventare nuovamente competizione politica largamente partecipativa? Dalla competizione bipolare che è una estremizzazione della concorrenza non delle idee ma della copertura dei posti di potere: ovviamente in direzione della conquista delle maggioranze delle istanze rappresentative; ma non di meno anche nel ruolo di partito egemone nell’alveo delle minoranze, nell’ambito dell’opposizione. Visto nell’insieme, il quadro che ne viene fuori, prescindendo dalla polarizzazione dei campi, non è negativo.
Soprattutto se lo si raffronta con la volontà esplicita del governo di indurire i rapporti tra i poteri dello Stato, di personificare (più che di personalizzare…) la politica dell’esecutivo quasi tutta nella figura troneggiante della Presidente del Consiglio, prima tra i pari e dalla quale tutto dipende: non si muove foglia che Giorgia Meloni non voglia nella maggioranza parlamentare, così come al tavolo tondo di Palazzo Chigi. Quindi, si può cogliere l’archiviazione dell’estremizzazione leaderistica nel campo progressista come un dato estremamente utile.
Utile se colto anche dalle altre forze politiche minori: a cominciare dalla sinistra di alternativa che, a dire il vero, avrebbe tanto bisogno di una figura capace di trascinare il consenso dei ceti popolari e più disagiati verso una politica che si rifaccia alla lotta di classe e che, nel contempo, dialoghi col resto del mondo progressista italiano per fare argine alle destre, per mandare a casa questo governo eversivo dell’ordine costituzionale, della storia del Paese, della cultura condivisa e dei valori sociali, civili e morali.
Indubbiamente, la nuova stagione della politica del centrosinistra italiano è costantemente minata dai tentativi di spostamento sul terreno del liberalismo/liberismo spinto, per accelerare un processo di ritorno ad una rappresentanza interclassista che, a ben vedere, non è mai venuta completamente meno. Si parla apertamente di sinistra, di socialismo (così si definiscono, appunto, i leader del PD oggi), riprendendo terminologie che parevano messe in soffitta e che, invece, ritornano perché la realtà dei fatti impone di prendere in considerazione una critica del capitalismo.
Il sostegno all’economia di guerra, all’invio di armi in Ucraina e una certa timidezza nel biasimare il criminale furore bellico israeliano, così come il sostegno all’europeismo neoatlantista, non giocano a favore di un dialogo franco, aperto e costruttivo tra sinistra moderata e sinistra di alternativa. Ma è un bene, nonostante tutto, che la pervasività del superamento del sistema carismatico e dell’uomo/donna forte al comando, quindi della messa in mora del partito come fenomeno di partecipazione collettiva e di condivisione delle scelte (per quanto indotte dai vertici…), abbia fatto passi avanti.
Non fosse altro, appunto, come contraltare alla narrazione oggi apparentemente dominante del bisogno di una durezza istituzionale nei confronti di chi impedisce il cambiamento in nome di un patriottismo cieco, di un nazionalismo esacerbato dalla primazia di una autoctonismo prevaricatore, pregiudizievole, dai tratti virulentemente xenofobi e razzisti. Ogni ritorno al modello della proporzionalità, della competizione uguale tra i più diversi, prescindendo dalla loro forza numerica, è una buona notizia.
Se si ritornasse, per l’appunto, anche a considerare molto più utile e costituzionale alla composizione delle maggioranze di governo anche una legge elettorale completamente proporzionale e inserita nella Carta del 1948, si andrebbe nella direzione di rendere veramente più rappresentative le istituzioni repubblicane: ad iniziare dalla centralità che il Parlamento deve poter tornare ad avere rispetto alla prevaricazione attuale che il governo fa subire alle Camere.
Tutto un altro discorso sono le valutazioni politiche nel merito dei programmi, nelle complicate relazioni interne al campo progressista, così come anche in quello delle destre. Il punto essenziale è questo, però: pensarsi come partiti e non come organismi al servizio di un leader, nonostante la presenza del segretario o del presidente sia quella che di più si mostra in televisione come sui giornali e su Internet, rimanda ad un tempo in cui le forze politiche erano legate ai territori e non soltanto all’immagine di una persona.
Intendiamoci: come si faceva cenno all’inizio di queste righe, le campagne elettorali sono ancora tanto, tantissimo personalizzate. Ma il tuonare dei populismi si è rarefatto: non si scontrano più gli “elevati” o i “capitani“, i “rottamatori” o gli “unti dal Signore“, bensì le proposte politiche, le interpretazioni sugli atti del governo e sui contrappunti delle opposizioni. Che sia o non sia una reazione al clima di autoritarismo che sopravanza rispetto alla tenuta democratica dell’interità delle istituzioni, è difficile poterlo affermare. Ma questo dato, giorno dopo giorno, pare sempre più evidente.
È un aspetto confortante su cui non si può, tuttavia, riposare; perché il melonismo è nel pieno del suo attivismo contro-costituzionale, antiparlamentare e non demorde dai punti fermi che, storicamente, ha ereditato dal passato neofascista e postfascista. Fare dell’Italia una repubblica presidenziale (o premieristica) con un governo che primeggi rispetto agli altri poteri dello Stato: lo scontro con la magistratura è uno degli esempi di come intendono la giustizia le destre estreme. Subordinata al potere esecutivo, mascherandola da “tribunale del popolo” di triste, novecentesca memoria.
La demitizzazione della raffigurazione del capo che guida la nazione, che deve essere invece guidata dal Parlamento e dalla complessa e articolata rete di interazioni tra i poteri dello Stato, è necessaria al ritorno di una cultura condivisa e diffusa delle istituzioni stesse come protesi della volontà popolare e non come proprietà di una maggioranza che fa quello che crede e vuole dettando la sua agenda alle minoranze.
Preservare la Repubblica dallo scivolamento verso il piano inclinato del neoautoritarismo di destra è un imperativo categorico, un assunto morale universale che, quindi, riguarda tutte e tutti: se i partiti si ripensano come soggetti attivi e collettivi di questo processo di difesa dell’Italia democratica, sociale, civile, pubblica, inclusiva e non escludente, fanno un servizio tanto a loro stessi quanto all’interezza dei rapporti tra i cittadini e tra loro e il resto del Paese. In sostanza, si mettono nuovamente a disposizione di una laicità repubblicana di cui c’è molto, troppo bisogno.
MARCO SFERINI