The fashion industry has a massive plastic problem that it outsources to countries in the Global South, where textile waste pollutes the environment. Ghana is one of the world's largest consumers of second-hand textiles. A good 120,000 tonnes of second-hand clothing from Asia, North America and Europe end up in the West African country every year. More than half of the clothing is inferior disposable goods with no resale value - much of it is made of plastic. On a research trip to Accra, a team from Greenpeace Africa and Greenpeace Germany used infrared scanners to examine discarded clothing at landfill sites and identify the various fibres. The result: almost nine out of ten items of clothing (89 per cent) contain synthetic fibres made from fossil fuels. After the garments are thrown away, these synthetic fibres decompose into microplastics. In the tested clothing from the Kantamanto market - the largest second-hand textile market in West Africa - the figure is as high as 96 per cent. Greenpeace also analysed the air quality in three wash houses in Accra where textile waste is incinerated. The results show that the air is heavily polluted with hazardous chemicals, many of which are single or multiple carcinogens, mutagens and toxic to reproduction. As part of a return-to-sender campaign, Greenpeace shipped textile waste back to Germany in a container designed by Ghanaian artists in order to take further samples and raise awareness about the destructive side of fast fashion. Overconsumption in the textile industry and the massive use of synthetic plastic fibres and blended fabrics are causing devastating environmental damage and threatening nature and people in the Global South. In the picture: plastic waste and textile waste on the shores of Accra near Korle Lagoon Die Fashion-Industrie hat ein massives Plastikproblem, das sie in Länder des Globalen Südens auslagert, wo Textilmüll die Umwelt verschmutzt. Ghana gehört weltweit zu den größten Abnehmern

di Giuseppe Ungherese (*)

Il fast fashion è all’origine di un disastro ambientale e di salute pubblica che si sta verificando ad Accra, in Ghana, a causa dei crescenti volumi di esportazioni di indumenti di seconda mano che provengono dai Paesi del Nord globale (Italia inclusa). A rivelarlo è il nuovo rapporto di Greenpeace Africa e Greenpeace Germania intitolato “Fast Fashion, Slow Poison: The Toxic Textile Crisis in Ghana”, risultato di un’investigazione durata mesi.

Il documento mette in luce le conseguenze disastrose del fast fashion, un modello di produzione basato sulla sovrapproduzione di capi a basso costo e consumo rapido che finisce per inquinare in modo massiccio questo Paese dell’Africa occidentale.

Per avere una misura del problema basta pensare a Kantamanto, il secondo mercato di abiti usati più grande del Ghana, che accoglie ogni settimana circa 15 milioni di vestiti (quasi tutti capi di fast fashion) provenienti soprattutto dal Nord del mondo. Purtroppo, quasi la metà di questi capi non trova acquirenti e si accumula nelle discariche, contribuendo a una crisi ambientale senza precedenti. E l’Italia ha un ruolo in tutto questo.

Rifiuti plastici e tessili sulle rive di Accra (Ghana), vicino alla laguna di Korle

Il ruolo dell’Italia nell’export di abiti usati

Il Ghana è la seconda destinazione per l’importazione di abiti usati dall’Europa, e l’Italia risulta tra i maggiori esportatori mondiali. Con quasi 200 mila tonnellate di vestiti inviati nel 2022, il nostro Paese si posiziona al nono posto a livello globale e terzo in Europa, dietro a Belgio e Germania.

Molti dei capi inviati appartengono a marchi di fast fashion noti come H&M, Zara e Primark, mentre brand emergenti come SHEIN si stanno rapidamente aggiungendo alla lista. Questi abiti, in gran parte invendibili, non solo non trovano nuova vita, ma finiscono spesso in discariche illegali o vengono bruciati, con gravi conseguenze per l’ambiente e la salute delle comunità locali.

Gli impatti del fast fashion sulla salute e sull’ambiente sono devastanti

La gestione inadeguata dei vestiti usati in Ghana sta innescando una vera e propria emergenza sanitaria. Nei lavatoi pubblici dell’insediamento di Old Fadama ad Accra, Greenpeace ha rilevato livelli preoccupanti di sostanze tossiche nell’aria, tra cui il benzene e altri idrocarburi cancerogeni. Questa contaminazione mette a rischio la vita delle persone che vivono in prossimità di queste zone e contribuisce all’inquinamento del suolo e delle acque. Oltre alla questione chimica, un altro problema è l’abbondanza di fibre sintetiche, come il poliestere, presente in circa il 90% dei capi analizzati. Queste fibre rilasciano microplastiche, inquinando fiumi e mari e trasformando intere coste in vere e proprie “spiagge di plastica”.

Una crisi dai contorni neocoloniali

Secondo Sam Quashie-Idun, autore del rapporto di Greenpeace, la situazione del Ghana è un chiaro esempio di squilibrio globale. Le nazioni ricche del Nord del mondo, attraverso l’eccesso di produzione e lo smaltimento di indumenti di scarsa qualità, stanno di fatto trasferendo i loro rifiuti in Paesi più poveri come il Ghana. Questo riflette una mentalità neocoloniale, in cui i benefici economici restano concentrati nelle mani delle grandi aziende, mentre le popolazioni del Sud del mondo ne pagano il prezzo in termini di salute e degrado ambientale. Quashie-Idun sottolinea la necessità di un trattato internazionale che metta fine a questa ingiustizia e tuteli le comunità più colpite.

Rifiuti plastici e tessili sulle rive di Accra (Ghana), vicino alla laguna di Korle

Per fermare l’inquinamento causato dal fast fashion servono azioni urgenti e mirate

Affrontare la crisi del fast fashion significa innanzitutto vietare l’importazione di indumenti non riutilizzabili, limitando le importazioni ai soli capi che possano davvero avere una seconda vita.

Inoltre, è fondamentale che le grandi aziende di moda si assumano la responsabilità dell’intero ciclo di vita dei loro prodotti, comprese le fasi di smaltimento e riciclo, tramite un sistema di “Responsabilità estesa del produttore” (EPR) a livello globale.

Infine, per contrastare il problema in modo duraturo, la comunità internazionale dovrebbe sostenere lo sviluppo di un’industria tessile sostenibile in Ghana, creando nuove opportunità economiche per il Paese e limitando la dipendenza dall’importazione di abiti di seconda mano.

La sfida è complessa, ma un cambiamento radicale è possibile. Solo con una cooperazione globale e un’azione decisa si potrà porre fine all’impatto devastante del fast fashion in Ghana, tutelando ambiente e comunità.

(*) Testo e foto originali ripresi da: https://www.greenpeace.org/italy/storia/24717/fast-fashion-inquinamento-ghana/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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