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L’Onu avvisa che la traiettoria del riscaldamento climatico continua ad essere fuori controllo. Possiamo salvare la Terra con questo modello di sviluppo?
Sono passati nove anni dalla ventunesima Conferenza mondiale sul clima della Nazioni Unite. Nove anni. La Cop21 si concludeva con sorrisi e lacrime, per un Accordo sul clima che non era scontato. Il governi di tutto il mondo si impegnarono a limitare il riscaldamento globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, rimanendo il più possibile vicini agli 1,5 gradi. Accettando in qualche modo un’inevitabile crisi ma manifestando, nero su bianco, la volontà di evitare che si trasformi in una catastrofe.
Era il dicembre del 2015. Nei mesi immediatamente precedenti, le Nazioni Unite chiesero ai governi di presentare dei documenti, chiamati Nationally determined contributions (Ndc), nei quali fosse spiegato quali strategie intendessero adottare per ridurre le loro emissioni di gas ad effetto serra, con quali tempi e con quali risultati attesi. Il calcolo ufficiale di quanto valessero tali promesse non arrivò in tempo per la conclusione della Cop21. Solo qualche mese dopo l’Unep, il Programma Onu per l’ambiente, rivelò che quelle promesse erano largamente insufficienti. E ciò anche ammesso che fossero rispettate per intero da tutti i governi.
Così, a più riprese le Nazioni Unite hanno chiesto ai governi di rivedere le Ndc, rafforzandole. Rendendole più ambiziose. Evitando che l’Accordo di Parigi rimanesse di fatto una magnifica dichiarazione d’intenti non seguita dai fatti. Sono così giunte alcune revisioni, non senza difficoltà, nel corso degli anni. Nel 2019, però, l’Unep avvisava: con le promesse giunte fino a quel momento, la traiettoria del riscaldamento globale portava a +3,2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. Che in termini concreti significherebbe stravolgere il clima della Terra in modo semplicemente inimmaginabile.
L’ultimo calcolo in ordine di tempo è di poche settimane fa. Ci dice che nonostante i disperati appelli e le preghiere rivolte ai governi, nella migliore delle ipotesi si arriverà a 2,6 gradi. Nella peggiore (attuazione reale di solamente una parte delle promesse) a 3,1. Una constatazione desolante, a poche settimane dall’avvio della Cop29 prevista a Baku, in Azerbaigian.
La domanda, dopo tanti anni, è semplice: perché? Perché anche di fronte a stragi, catastrofi e disastri come quello di Valencia il mondo continua ad ostinarsi a non voler agire in modo adeguato? Cosa impedisce ai governi di muoversi? O forse “chi”, dovremmo chiederci?
Come in ogni cosa, la risposta non è univoca. Guardando al mondo intero, non si può non constatare il fatto che troppe nazioni sono costrette a mettere da parte la questione climatica poiché alle prese con guerre, crisi umanitarie disperanti. E magari catastrofi provocate proprio dal riscaldamento globale. Ci sono poi i governi che, invece, adottano una linea politica precisa, che è basata – diciamolo – su una profonda e cieca ignoranza del problema
Negli Stati Uniti si voterà tra pochissimi giorni, e secondo i sondaggi non è affatto escluso che la nazione più ricca e potente del mondo possa tornare nelle mani di un arricchito che parla di clima con la stessa competenza con la quale Elon Musk può parlare di lotta alla povertà e alle disuguaglianze. In Italia l’ex ministro Cingolani sproloquia sulle cause dei cambiamenti climatici propinando minestroni di negazionismo, luoghi comuni e verità anti-scientifiche. In Europa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si appresta a varare il nuovo organismo esecutivo di Bruxelles promettendo l’applicazione di un piano predisposto dall’ex presidente della BCE ed ex presidente del Consiglio Mario Draghi nel quale si punta il dito sulle norme ecologiste bollandole come un costo e un fardello burocratico per le povere imprese del Vecchio Continente.
Se c’è dunque un denominatore comune di fronte a tutto questo, si chiama modello di sviluppo. Di qui, l’annosa questione: siamo in grado di fronteggiare la sfida epocale posta dai cambiamenti climatici sulla base di un sistema di valori economici che punta sulla massimizzazione del profitto ad ogni costo, sui risultati di breve e brevissimo termine anziché sulla lungimiranza, sullo sfruttamento insostenibile delle risorse della Terra? A questa domanda ci è stato risposto che sì, si può fare. Gli strumenti del modello economico capitalista (nelle varie declinazioni che vanno dagli ultrà del liberismo alle versioni socialdemocratiche edulcorate) sono sufficienti, ci è stato detto.
Bene, se è così dimostratecelo. Forza, cari governi impermeabili all’introduzione di modelli economici e finanziari diversi – se non alternativi, per lo meno profondamente riformati – rispetto a quello attuale: dateci voi la prova che abbiamo torto. Mostrate al mondo che il Green Deal partorito in Europa per rilanciare le macchine produttive dopo la pandemia è in grado di ribaltare le sorti del Pianeta. Adottate promesse di riduzione delle emissioni in linea con quanto chiede la scienza. Abbiate il coraggio di dire alle compagnie petrolifere e del gas che non devono “cambiare”, ma “rivoluzionare” i loro business. Andatelo a dire ai dirigenti di Eni, di Shell, di BP, di ExxonMobil, di RWE. E anche voi, cari manager, fate in modo che i vostri rapporti di sostenibilità non siano esercizi di maquillage per mostrare i vostri profili migliori, ma resoconti di ciò che avete fatto davvero, concretamente, seriamente.
Avete insistito affinché il paradigma economico non cambiasse. Lo avete fatto di fronte alle crisi. Di fronte alle disuguaglianze tra nazioni e al loro interno. Di fronte alle peggiori aberrazioni. Adesso siamo di fronte a quella che potrebbe rappresentare la peggiore emergenza globale mai vissuta dai tempi della Seconda guerra mondiale: dimostrateci che voi e il modello che difendete siete all’altezza, e nessuno avrà paura di ammettere che avevate ragione voi.