Donald Trump torna alla Casa bianca con la maggioranza del voto popolare, trova un Congresso repubblicano e la Corte Suprema già ultraconservatrice. I segnali dello spostamento a destra c’erano prima del voto, ora l’agenda di Trump segnerà la nuova fase della politica interna e internazionale.
Donald Trump ha vinto, in modo netto, le elezioni presidenziali Usa. I Repubblicani hanno la maggioranza al Senato, avranno probabilmente il controllo anche della Camera dei Rappresentanti. Hanno avuto – diversamente dal 2016 – una maggioranza nel numero dei voti ottenuti: tutti gli Stati Uniti sono andati con Trump. E’ uno spostamento profondo della politica americana, un “mandato per il cambiamento”, come ha commentato Elon Musk, grande elettore e protagonista della campagna di Trump.
La concentrazione sul voto presidenziale e sugli Stati “in bilico” ha portato a trascurare la vastità del sommovimento politico. Con i dati di metà giornata del 6 novembre, i 71 milioni di voti di Trump contro i 66 milioni di Kamala Harris sono la misura effettiva, senza precedenti, dello spostamento a destra del paese, ci ricordano che la politica si fonda sulla partecipazione delle persone, con scelte che nascono dalle loro condizioni di vita e visioni del mondo.
E’ difficile da comprendere perché la strategia dei Democratici non abbia messo al centro dello scontro elettorale anche il controllo dei Congresso. L’allineamento dei poteri – Trump alla Casa bianca, il Congresso repubblicano, la Corte Suprema già ultraconservatrice – è una situazione che ha pochi precedenti nella storia americana e che dà mano libera al nuovo governo. Non ci saranno argini nelle istituzioni Usa ai cambiamenti che Trump vorrà introdurre.
Vediamo alcune radici, visibili già prima del voto, di questo spostamento radicale.
I segnali dell’arrivo di Trump non sono mancati. Era senza precedenti che il New York Times pubblicasse il 2 novembre un breve editoriale, un appello al voto a caratteri cubitali, dichiarando che Trump “è indatto a guidare il paese”, “mente senza limiti”, “porterebbe disastri per i poveri, la classe media, i datori di lavoro”.
Per lanciare un “urlo” che chiedeva aiuto contro Trump, la situazione americana vista dal New York Times doveva già essere disperata. La stessa aspettativa era diffusa tra i miliardari Usa, grandi finanziatori della campagna repubblicana, anche in ambiti – come Silicon Valley – che un tempo erano per i Democratici. Jeff Bezos, il padrone di Amazon, ha impedito al Washington Post, di sua proprietà, di pubblicare un editoriale che dichiarava il voto a Kamala Harris e 200 mila abbonati (il 10%) hanno disdetto per questo l’abbonamento al Post. Un pesante “costo” economico e d’immagine per Bezos, ma poca cosa a confronto dei grandi affari possibili con Trump e Elon Musk.
Consideriamo il voto di alcuni soggetti chiave. Kamala Harris ha puntato moltissimo sul voto delle donne, ma un recente sodaggio del Pew Research Center mostrava che il 53% delle donne Usa scelgono i Repubblicani, contro il 43% che si identifica con i Democratici. E un articolo del New York Times ci ricordava che già otto anni fa solo il 45% delle donne bianche aveva votato per Hilary Clinton contro Donald Trump, mentre per le donne nere il voto a Hilary era stato del 98%. Erano le donne nere – già radicate nel campo democratico – a spostare l’orientamento delle donne verso Kamala Harris. Che ha invece inseguito senza successo il voto delle donne bianche dei suburbi con l’immagine della “donna con la pistola a casa” e facendo campagna elettorale accanto alla repubblicana Liz Cheney, un personaggio molto discutibile, come il padre, Dick Cheney, vicepresidente con George W. Bush. Scendere sul terreno degli avversari – le armi, la sicurezza – è sempre problematico e inefficace. Non è bastata la contrapposizione sul tema dell’aborto a spostare il voto delle donne.
La diffusione dei consensi per Trump tra gli elettori neri e latinos era già stata anticipata dalle analisi precedenti il voto, ma le sue dimensioni ora rompono un paradigma sul blocco sociale democratico, di cui le minoranze etniche erano una componente considerata acquisita.
In termini sociali, l’elemento chiave della vittoria di Trump è il consenso tra le classi medie e popolari – persone senza studi universitari –, che si è generalizzato. L’interpretazione che viene ora proposta dai media Usa è lo scontento per gli effetti dell’inflazione: con Biden i prezzi sono aumentati, con Trump c’è la fiducia che i prezzi tornino bassi. E’ significativo che per molti economisti liberal – a cominciare da Paul Krugman – la caduta del tasso d’inflazione e l’aumento dell’occupazione negli ultimi anni siano un segno evidente del successo di Biden in campo economico. A queste letture “aggregate” sfuggono le condizioni materiali degli elettori. Il tasso d’inflazione è sceso, ma la perdita del potere d’acquisto dei salari è rimasta: intorno al 15% negli ultimi tre anni per la media degli americani, ma molto più alta per le fasce di reddito più basse che spendono di più per alimentari, energia e salute, beni i cui prezzi sono cresciuti maggiormente. L’aumento dei redditi non ha compensato questi effetti e i livelli dei salari pagati per moltissimi dei nuovi lavori sono così bassi da lasciare 6 milioni e mezzo di lavoratori Usa in condizioni di povertà assoluta. Le disuguaglianze di reddito e ricchezza – ampliate dagli effetti della pandemia e dall’inflazione – e l’impoverimento della classe media sono alla radice del disagio economico che ha portato voti a Donald Trump. Ma questi aspetti strutturali dell’economia, queste condizioni materiali della società, queste radici dell’ingiustizia e del disagio sociale, sono lasciati in ombra dalla politica, negli Usa come in Europa. E’ qui che sarebbe urgente riportare il dibattito.
L’interpretazione della nuova fase politica che sembra affacciarsi negli Usa è però tutta diversa, quasi paradossale. Nate Cohn, a capo della redazione politica del New York Times, offriva il 2 novembre un’analisi che era già una giustificazione della vittoria di Trump: siamo alla fine di un’“epoca progressista” perché le risposte alla pandemia e all’inflazione hanno scontentato gli elettori. Il punto di partenza è che appena il 40% degli elettori approvava la performance del Presidente Biden e solo il 28% pensava che il paese stesse andando nella giusta direzione: “Nessun partito ha mai mantenuto il controllo della Casa bianca quando così tanti americani erano insoddisfatti del paese o del presidente. (…) Per la prima volta da decenni, i repubblicani sono alla pari o in vantaggio nell’identificazione con i partiti a livello nazionale”.
L’articolo di Nat Cohn faceva il confronto con le tendenze simili in Europa e Giappone, dove i partiti di governo vengono sconfitti da una diffusa spinta conservatrice. Lo spostamento a destra degli Usa va certamente visto in parallelo a quello registrato nel voto per il Parlamento europeo, nelle elezioni di Francia e Germania, e che abbiamo avuto per primi in Italia. Le radici sociali – disuguaglianze e impoverimento – sono le stesse.
Ma è paradossale che Nat Cohn legga il recente passato come un’indiscussa “epoca progressista”:
“Dal 2008, i democratici e il liberalismo hanno dominato la politica americana. I democratici hanno vinto il voto popolare in quattro elezioni presidenziali consecutive. Quando hanno avuto il pieno controllo del governo, hanno promulgato l’Affordable Care Act, il Dodd-Frank e il CHIPS Act; hanno salvato l’industria automobilistica e speso miliardi per le energie rinnovabili, le infrastrutture e altro ancora. Il liberalismo è stato in ascesa anche nella cultura. Il periodo è stato segnato da una serie di movimenti popolari della sinistra militante, dalla campagna Obama ’08 a Occupy Wall Street, Black Lives Matter, #MeToo, la campagna di Bernie Sanders e le richieste di un New Deal verde e di Medicare per tutti (…). Negli ultimi anni, tutta questa energia progressista è sembrata improvvisamente svanire”.
Francamente, non ci eravamo accorti di aver vissuto vent’anni di riforme democratiche: non ci sono dati che documentino negli Usa risultati in termini di riduzione delle disuguaglianze, tutela delle condizioni di vita delle classi popolari, vincoli alla logica della finanza. Né si possono sovrapporre le campagne dei movimenti Usa, le domande sociali di cambiamento, con le politiche effettivamente realizzate della leadership democratica e dalla presidenza di Joe Biden. Quei movimenti hanno costruito consapevolezza, lotte, un immaginario diffuso, ma non sono stati ascoltati nemmeno dai Democratici.
Dare alle spinte progressiste la responsabilità per la reazione che ha portato Trump alla Casa bianca è non solo un errore di analisi, ma porterebbe a indebolire le energie che saranno necessarie per contrastare l’egemonia dell’estrema destra.
Piuttosto, per capire la vittoria di Trump, e le sue radici, è utile rileggere oggi l’analisi più lucida e preveggente del voto del 2016, quella di Michael Moore, autore del documentario Fahrenheit 11/9 sulle elezioni del 2016 e sui primi anni della presidenza di Donald Trump. In quell’articolo Michael Moore spiegava perchè Trump poteva vincere in quattro Stati allora tradizionalmente democratici, Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin, e diventare presidente, come è poi successo, sulla base del disagio sociale delle classi medie.
Mettendo in fila tutti questi elementi, l’arrivo di Trump alla Casa bianca sembrava annunciato. Kamala Harris aveva i difetti politici di Joe Biden e Hillary Clinton, ereditava una presidenza impopolare, non aveva un’immagine e idee forti, ha fatto una rincorsa al centro-destra. Quali erano le spinte che avrebbero dovuto portarla a vincere? L’anti-trumpismo, certo, ma la campagna democratica non ha affrontato le radici del consenso a Trump, le condizioni materiali che ne definiscono la base sociale e politica. Nell’interpretare la disfatta della politica democratica – negli Usa come altrove – è importante ripartire da queste lezioni.