Èdifficile ritenere quella di Donald Trump una vera e propria “proposta politica” vincente. Non fosse altro per il fatto che il missaggio di intemperanze lessicali, di anatemi e insulti allontana dalla classica declinazione pratica che si ha della locuzione utilizzata per sintetizzare un insieme di ricette capaci di elaborare prima e mettere in pratica poi una trasformazione economica, sociale e culturale di un paese.
Eppure quella di Trump, Vance e Musk, un triumvirato oggi al potere negli Stati Uniti d’America, è una proposta politica ben definita che affonda le sue radici nel substrato finanziario, nel sostegno dei grandi miliardari della Silicon Valley, nella visionaria progettazione di una grandezza interplanetaria di una umanità guidata dalla Repubblica stellata in un neodominio imperialista e coloniale in un mondo unipolare e non competitivo sul terreno della egemonizzazione tanto strutturale (in senso marxiano) quanto sovrastrutturale (sempre in senso marxiano, ma non marziano).
Quella che si apre con la rivincita di Trump sui democratici, una rivincita assoluta, senza tema di smentita, che determina una crisi profonda nel modello del finto progressismo statunitense, è una nuova fase del modello plutocratico che si salda convintamente ad un conservatorismo autarchico, ad un protezionismo etnico, ad una salvaguardia di quei presunti valori eterni innervati nella missione divina affidata ai padri pellegrini della Plymouth.
Trump stravince nel voto popolare e, per la prima volta dopo decenni, afferma un potere assoluto personale, mediante un Grand Old Party completamente asservito alla sua funzione di capo, di leader, di conducator che non ha più bisogno di convincere nessuno di essere il migliore tra gli altri; bensì l’unico capace di interpretare la funzione storica del Partito Repubblicano che si tramuta così in un soggetto politico altro dalla sua tradizione, altro da sé stesso.
Se la mutazione genetica e la riconversione moderna nella rielaborazione trumpiana del potere sarà così totalizzante, lo scopriremo solo vivendo e subendo gli effetti di una presidenza che intende sgomberare il campo dagli equivoci: ha il consenso del popolo, ha dalla sua le più grandi organizzazioni economiche, i cartelli dell’alta finanza, le istituzioni federali (dalla Corte Suprema al Congresso tutto), molti governatori statali e una rete sempre più capillare di opinione pubblica che cerca una stabilità e una lontananza dai timori del futuro che i democratici non sono stati in grado di interpretare.
Biden prima e Harris poi hanno regalato all’America l’immagine, del resto veritiera, del partito della guerra intento ad investire sempre più risorse per la NATO e per i crimini genocidiari di Netanyahu un Palestina, piuttosto che per rafforzare il fronte interno della salvaguardia dei diritti sociali che finiscono per soccombere sotto il peso di una compromissione con un liberismo concreto che surclassa un progressismo di facciata.
Kamala Harris, avversata persino da gran parte del suo stesso partito, non è riuscita a recuperare lo svantaggio che aveva nei confronti di Trump dopo la ritrosia bideniana circa l’abbandono della ricandidatura alla Casa Bianca. Ma le motivazioni della sconfitta democratica non stanno esclusivamente in un ritardo attuale sui tempi veloci della politica di una destra entrata in sintonia con gran parte della “working class” e della “middle class” (non solo bianca, ma anche nera ed ispanica).
La grande sconfitta del martedì elettorale, della notte di diritti, della riscossa MAGA, arriva da molto più lontano. Perdono i ceti popolari che, tuttavia, decretano, proprio con la rivincita trumpiana, il fallimento epocale della doppiezza democratica, di una élite che, a partire da Clinton poi, passando per Obama e poi Biden, ha giocato le sue carte sul fare degli Stati Uniti una potenza post-moderna, post-sovietica, post-bipolare, con i piedi saldi nel fondomonetarismo, nel corteggiamento della grande finanza, nonostante le crisi delle bolle speculative del biennio 2008-2009.
I salariati, i lavoratori, gli studenti e tutti coloro che hanno subito gli effetti delle crisi economiche, pandemiche e belliche, si sono sempre meno riconosciuto nella logica della compromissione tra bisogni e diritti sociali con privilegi di classe, della classe dei capitalisti e dei grandi ipermiliardari dal voto di Gates e Bezos, mentre sul fronte repubblicano imperversavano prima Murdoch e poi Musk.
A parte l’”Obamacare“, non si ricorda nessuna concreta riforma che andasse incontro alle esigenze fondamentali di una popolazione coinvolta nelle scelte di una amministrazione intenta a dare tutele ai grandi patrimoni, per garantirsi la continuità del potere mediante i loro finanziamenti, all’industria delle armi, al fomentare nuove tensioni internazionali dai costi esorbitanti per un impero costretto ad uscire dalla logica dell’unipolarismo e a fare i conti con quella sempre più coalizzata parte di mondo che vede negli Stati Uniti il nemico da fronteggiare.
La presidenza di Biden è stata, nei primi due anni, una rivincita sulla prima fase del trumpismo che aveva mostrato tutti i caratteri eversivi, culminati nella rivolta contro Capitol Hill; ma nei restanti ultimi anni di presidenza, compreso quello attuale, non ha fatto altro se non condurre gli USA verso uno scontro di civiltà che è risultato, per la maggiore, incomprensibile, lontano dagli interessi interni della gran parte della popolazione. Dalla guerra in Ucraina al conflitto in Medio Oriente, l’amministrazione Biden-Harris ha contraddetto il Pentagono sugli sviluppi infausti e ha continuato ad investire sulla produzione di armi.
La ritirata indecorosa dall’Afghanistan, lasciato nelle grinfie teocratico-oscurantiste dei Taliban, non ha di certo contribuito a sostenere una diffusa convinzione sul disimpegno da parte del governo nei confronti dei teatri di guerra da lunghissimo corso. Dopo vent’anni di lotta al terrorismo, cosa è rimasto? Nulla della presuntuosa “esportazione della democrazia“; paesi devastati da conflitti etnici e religiosi, economia distrutte, egemonie nordamericane incerte e prive di un vero mordente nelle regioni in cui sono morte migliaia di soldati.
La sconfitta democratica è, dunque, figlia di un fallimento sul piano sociale, su quello civile e culturale: dimostra che gran parte dell’America che sopravvive e tira a campare giorno dopo giorno, ha drammaticamente ricevuto da Donald Trump un messaggio più convincente, realistico, diretto, concreto rispetto ad una immagine ormai opaca di un progressismo che ha tradito per troppi decenni le aspettative della classe lavoratrice e di quel ceto medio su cui si fondava una, seppur timida, saldatura tra grandi metropoli e zone rurali capace di determinare le inversioni di tendenza nel voto.
Ed è esattamente in questa incapacità di relazionarsi direttamente con la classe operaia, con le lavoratrici e i lavoratori, con gli studenti e il mondo del precariato diffuso, che sta il nucleo centrale attorno a cui si muovono le altre ragioni della sonora sconfitta democratica. Kamala Harris non ha ottenuto il voto dei giovani che, si sperava, si esprimessero per lei in funzione meramente anti-trumpiana. Nonostante l’appoggio e le esternazioni di Julia Roberts, non ha nemmeno avuto il voto delle donne i cui mariti votano repubblicano, per difendere il corpo, la mente, la vita di ogni giorno del mondo femminile.
La sconnessione tra i democratici e le classi sociali più fragili è il segno indelebile della storica affermazione di Trump, Vance e Musk: tre reazionari, misogini, omofobi e xenofobi, i cui sentimenti e interessi si legano nella proposta politica di un recupero della grandezza degli Stati Uniti d’America basato sulla garanzia che le contraddizioni sono superabili e che niente è, per questo, impossibile. Musk sogna la colonizzazione di Marte per evitare l’estinzione umana e non, invece, la salvaguardia del pianeta Terra dalle catastrofi derivanti dal cambiamenti climatico.
Vance, da sostenitore democratico, è passato al più acceso trumpismo e, per la sua verve e la sua giovane età (rispetto a quella del suo presidente) viene già considerato il delfino che supererà il maestro e che potrà garantire quindi ai nuovi repubblicani iperconservatori ed autocratici un proseguimento della seconda fase del MAGA: un movimento che è un partito nel partito o, se volete, un partito che si affianca alla dirigenza repubblicana e che ha influenzato tanto il GOP da trasformarlo radicalmente.
Trump è e rimane quello che era otto anni fa, all’inizio della sua prima presidenza: farà quello che ha dichiarato di voler fare. Ma non riuscirà a mettere fine alle guerre in ventiquattro ore. Le incognite sulla politica estera sono tantissime: dalla continuazione del sostegno all’Ucraina, ad una ripresa del dialogo con una Russia che, è bene precisarlo, in una dichiarazione di poche ore fa tiene a precisare che gli Stati Uniti erano, sono e rimarranno il nemico numero uno del Cremlino. Per quanto riguarda la Cina, ci si deve attendere un nuovo atteggiamento ostile? La questione nordcoreana e quella taiwanese sono sempre sul piatto della bilancia.
Molto complicato poter dire da quale parte penderà. Ma di sicuro, oggi, Donald Trump e i suoi sostenitori possono avere il vantaggio di dirsi ed essere il punto di riferimento di tutti quei regimi e quelle postdemocrazie (democrature o autocrazie che altrimenti le si voglia definire…) che fanno del ruolo dello Stato una impalcatura atta a sorreggere politicamente gli elementi fondanti della conservazione etnocentrica, familistica, religiosa che si esprime nel trittico meloniano “Dio, Patria, Famiglia“; economicamente i poteri finanziari più imponenti e determinanti per la loro stessa tenuta; socialmente un interclassismo garante della tenuta di una finta pace interna.
La sonora batosta subita dai democratici è, oggettivamente, la premessa e, al tempo stesso, la conseguenza della crisi della Democrazia con la di maiuscola. Il sistema costituzionale che dovrebbe, con pesi e contrappesi, garantire il controllo parlamentare sul governo, è definitivamente saltato: Trump ha nelle sue mani tutto. Potere esecutivo, potere giudiziario, potere legislativo. Si può davvero ancora parlare di “democrazia americana” in questo frangente storico?
Trump non sosterrà nessuna politica in favore di un recupero dei diritti sociali, tagliando ancora di più i fondi pensionistici, incentiverà le assicurazioni sanitarie private e metterà ogni sforzo statale al servizio del grande capitale finanziario. Eppure, agli occhi di decine di milioni di statunitensi, pare essere lui, da una posizione di estremissima destra conservatrice, il più certo innovatore sociale del Grande Paese.
Questo è o non è il fallimento epocale del compromesso compromissorio tra interessi del mondo del lavoro e privilegi capitalistici portato avanti dal Partito democratico? Se ci si ostina a non leggere i dati reali, a non prendere in considerazione i rapporti di forza tra le classi, a non vedere il livello di sudditanza assunto dal (chiamiamolo così, semplificando) “centrosinistra” americano nei confronti del capitale economico-finanziario, si nega a priori una crisi ormai endemica del tentativo riformista e riformatore del capitalismo medesimo.
Il liberismo logora, coll’illusione del potere come elemento di cambiamento, l’essenza della sinistra moderata e la perverte, la trasforma nel suo contrario proprio nella sua più genuina originalità (per quanto criticabile possa essere): quella di provare a recuperare un po’ del maltolto, di redistribuire la ricchezza senza mettere in forse l’esistenza del sistema stesso. A differenza della sinistra di alternativa che, invece, si batte principalmente su questo versante.
Il liberismo, dopo aver agito in questa direzione, punta tutto sul primo populista di turno e investe lì le sue fortune future: in particolare se si tratta di un magnate che, nonostante i rovesci di fortuna economici, le inchieste e le condanne, riscuote, nel vuoto della proposta opposta di un riscatto sociale ininterpretato dal progressismo democratico, un successo vastissimo a furor di un popolo che teme le minacce moderne e si chiude a riccio in un isolazionismo fatto di paure, fobie e visioni complottisticamente apocalittiche.
Non c’è giustificazione alcuna per la sconfitta democratica. Kamala Harris è soltanto l’ultimo anello di una lunga catena di politiche antisociali che, nonostante le rivendicazioni sui diritti civili e la tutela delle libertà fondamentali, si sono rivelate per quello che realmente sono sempre state: l’abdicazione del ruolo di alternanza del partito dell’asinello nei confronti del suo competitor plurisecolare. L’America ora è costretta a guardare in faccia il prodotto di questa doppiezza, di una ipocrisia riformista che getta la nazione e il mondo in una ancora più incerta e insicura prospettiva di non-cambiamento.
Guerre, mutamenti climatici, imperialismi di tutti i tipi. Difendendo gli interessi dei grandi ricchi da sinistra si finisce con lo smarrire completamente quest’ultima e rimanere con un pugno di mosche in mano. I proclami del giorno dopo, tra commozione e qualche sorriso di prammatica, lasciano l’amaro in bocca e regalano soltanto il tempo che trovano. Troppo poco per il grande sogno americano fondato su una democrazia che, dopo due secoli e mezzo, affronta un passaggio davvero denso di incognite.
MARCO SFERINI