Secondo la Global Coal Exit List 2024, il 95% dell’industria del carbone non ha alcun piano di eliminazione. E la finanza continua a investire
«Nonostante l’anno scorso ci sia stata una netta crescita nella capacità delle energie rinnovabili, l’industria del carbone è ancora uno dei fattori primari nel continuo perpetuarsi della crisi climatica. Nove anni dopo la firma dell’Accordo di Parigi, la produzione di carbone termico ha infatti raggiunto un livello senza precedenti. E a livello globale il numero di centrali a carbone è ancora in crescita». Così parla Heffa Schuecking, direttrice di Urgewald, una delle 52 organizzazioni non governative che hanno stilato la Global Coal Exit List (GCEL) 2024. Un database pubblico che monitora i comportamenti di 1.579 aziende che operano lungo la filiera del carbone termico. E le cui conclusioni, a pochi giorni dal via della Cop29 che si terrà a Baku dall’11 al 22 novembre, sono allarmanti.
Dalla firma dell’Accordo di Parigi, la capacità di energia da carbone è aumentata
GCEL fa sapere che nel 2015 la capacità totale di carbone installata nel mondo era di 1.910 gigawatt (GW). Mentre oggi è pari a 2.126 GW. Solo nell’ultimo anno – aggiunge il report – la capacità globale del carbone è cresciuta di 30 GW. Ha avuto quindi un incremento netto più alto di tutte le centrali a carbone della Polonia messe insieme. Ma non è finita qui. Nonostante siamo oramai pericolosamente vicini a superare il limite di 1,5°C, la stragrande maggioranza delle aziende carbonifere mondiali si rifiuta ancora di effettuare la transizione. Delle 1.579 società madri e 1.204 sussidiarie presenti sul database GCEL, sono solo 124 quelle che hanno annunciato una data di uscita dal carbone. Meno del 5% del totale.
Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (Iea) e l’Onu, mantenere l’obiettivo di 1,5°C richiederebbe un’eliminazione graduale del carbone nei paesi OCSE entro il 2030. E nel resto del mondo entro il 2040. Ma, delle 124 aziende con impegni di eliminazione graduale monitorate, solo 66 hanno adottato delle exit strategy che rispettano le scadenze del 2030 e del 2040 stabilite dalla Iea. Altrettanto preoccupante è che la maggior parte di chi si è impegnato a uscire dal carbone stia pensando di farlo con il gas fossile. Solo 7 aziende stanno infatti effettuando il passaggio alle energie rinnovabili.
Cina, India e Australia sono i Paesi più restii ad abbandonare il carbone
GCEL è un database pubblicato ogni anno dal 2017 che raggruppa i grandi produttori o utilizzatori di carbone. E anche quelle aziende che dal carbone generano oltre il 10% della loro energia o dei loro ricavi. Il nuovo GCEL identifica 376 operatori che stanno pianificando nuovi progetti di estrazione di carbone termico in 36 Paesi. Il più grande è Coal India. Nel 2023 ha prodotto 649 milioni di tonnellate di carbone termico e ora mira a sviluppare altre 90 nuove miniere, o estensioni delle esistenti, che potrebbero aggiungere altre 556 milioni di tonnellate alla sua produzione annuale. In generale i nuovi progetti di costruzione o espansione delle miniere di carbone termico sono pianificati in India, con 947 milioni di tonnellate per anno (Mtpa), in Cina (873 Mtpa) e in Australia (201 Mtpa).
Poi ci sono 286 produttori di energia a carbone che stanno pianificando nuove centrali. Per un totale di 579 GW. Una quantità pari al 27% dell’attuale capacità di energia a carbone nel mondo. La quota maggiore, 392 GW, è pianificata in Cina. Nonostante lì le rinnovabili siano ora più economiche. In questo caso, il più grande sviluppatore di centrali a carbone al mondo è il China Energy Investment Group. La società prevede di aggiungere 44 GW alla poderosa quantità che già possiede, pari a 209 GW. «La Cina gioca su entrambi i fronti», spiega ancora Heffa Schuecking di Urgewald. «Da un lato sta costruendo due terzi dei nuovi impianti eolici e solari su scala industriale del mondo, dall’altro è però responsabile del 68% della pipeline mondiale di impianti a carbone».
Mentre banche, fondi e assicurazioni continuano a investire
Ma c’è un altro problema. Negli ultimi decenni sono stati gli istituti finanziari a fornire gran parte del capitale che ha consentito l’enorme crescita dell’industria del carbone. Proprio la finanza avrebbe il potere di accelerarne l’uscita, ma nulla si sta muovendo in tal senso. Anche perché questo richiederebbe di implementare politiche di cui per adesso si sente solo la mancanza. Il Norwegian Government Pension Fund, per esempio, creò un eccellente precedente quando nel 2015 decise di espellere dal suo portafoglio le aziende con oltre il 30% di entrate dal carbone. Ma da allora non ha fatto ulteriori passi avanti.
Ed è vero che da allora altre realtà finanziarie hanno deciso di escludere dal portafoglio aziende con entrate superiori al carbone del 15%, o addirittura del 5%. Ma è anche vero che oltre l’80% delle grandi banche, dei gestori patrimoniali, delle assicurazioni e dei fondi pensione presenti nel Coal Policy Tracker di Reclaim Finance non si sono ancora impegnati a uscire dal carbone termico entro le scadenze del 2030 e del 2040. «È qui che sta il problema», spiega Yann Louvel di Reclaim Finance. «Se la maggior parte delle istituzioni finanziarie mondiali continua a sostenere queste aziende, non saremo in grado di uscire dal carbone in tempo».
A peggiorare le cose, alcune banche hanno addirittura aumentato il loro sostegno all’industria del carbone negli ultimi anni. Bank of America nel 2023 ha fornito il 30% di soldi in più rispetto al 2016. US Bancorp ha aumentato del 39% il suo sostegno al settore, PNC Financial Services del 79%, Royal Bank of Canada del 27%, Toronto Dominion del 90% e BMO del 138%. «Investire in queste aziende è come appiccare nuovi incendi in una casa che sta già bruciando», conclude Heffa Schuecking. «Le istituzioni finanziarie che prendono sul serio gli obiettivi di Parigi devono immediatamente vietare gli investimenti negli sviluppatori di carbone».