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di Marco Sferini

Cantava Francesco Guccini: «Bologna capace d’amore, capace di morte / Che sa quel che conta e che vale, che sa dov’è il sugo del sale / Che calcola il giusto la vita e che sa stare in piedi per quanto colpita». Emiliani e romagnoli, scendendo anche un po’ sul terreno accidentato delle stereotipazioni, sono gente forte che sa reagire e che, soprattutto, dimostra di avere buona memoria e buona coscienza civile.

Per creare una polemica ad arte, a ridosso del voto regionale di domenica 17 e lunedì 18 novembre, la manifestazione dei neofascisti nei pressi della stazione, là dove scoppiò la bomba dei Nuclei Armati Rivoluzionari, che fece ottantacinque morti e duecento feriti, è apparsa a qualunque persona con un pizzico di onesto buon senso quello che era: una provocazione.

Per poi affermare che la Bologna che reagisce a ciò, che si sente sfregiata da quella presenza immorale, incostituzionale, antistorica e letteralmente indecente, è una conventicola di “zecche rosse” i cui centri sociali comunisti vanno chiusi, perché sarebbero la fucina di facinorosi, violenti, criminali che attaccano i poliziotti indifesi. Quegli stessi agenti che vengono mandati allo sbaraglio in mezzo ad una folla che reagisce alla militarizzazione e alla repressione del dissenso.

Che poi qui nemmeno si tratta di maggioranza e minoranza, ma di governo e di opposizione sì. Se una manifestazione neofascista non viene vietata dalle istituzioni preposte, democratiche, che si uniformano allo spirito della Costituzione della Repubblica, perché sono lo Stato, allora la reazione popolare è necessaria e supplisce all’inadempienza, alla lacuna, al non aver impedito che qualche centinaio di fascisti del nuovo millennio potessero organizzare il loro raduno.

Ma il governo, il giorno dopo, attacca i manifestanti e, dichiarazione di un ministro dopo l’altro, costruisce la narrazione che viene propalata dai giornali e dagli altri canali di comunicazione delle destre estreme: i fascisti hanno diritto di manifestare, quelli cattivi cattivi sono sempre loro… la gente definita “antagonista” (come se fosse una brutta parola, peggio di “fascista“), gli anarchici, i comunisti, “i rossi” come si prefigurava la minaccia eversiva ad inizio Novecento…

In ordine di tempo, la vicenda bolognese è soltanto l’ultima di una serie di pretesti che il governo cerca per esercitare, con un Disegno di Legge 166o in attesa di approvazione da parte di un Parlamento blindato, un controllo sempre più stringente sul diritto di espressione, di partecipazione, di manifestazione e, in generale, di critica e di opposizione alle sue politiche, al progetto di trasformazione della democrazia repubblicana in una democratura.

Ormai, dopo la vittoria schiacciante di Donald Trump, non si tratta nemmeno più di una impressione: la destra nazionale e internazionale prevale in una parte del mondo cosiddetto “occidentale“, mentre altrove si pronunciano sempre più veementemente i venti di guerra, si rinforzano regimi già autoritari che sono divisi dagli interessi americani e nordatlantici dai progetti egualmente imperialisti e neocolonialisti.

Non è il multipolarismo a salvarci da una neofascistizzazione globale, ma a stabilire le regole di una competizione tra Stati che si giocano la partita della gestione di una crisi epocale (economica, bellica, sociale e ambientale) e che, quindi, appaiono a volte meno vicini alle destre di casa nostra rispetto ad altri. Ma è tutta una illusione, una parvenza di realtà.

Quegli stessi che marciavano inneggiando alla nazione, al patriottismo, cantando e ritmando slogan dei peggiori anni bui della Repubblica, quando i piani della P2 convergevano con quelli dell’eversione nera (e viceversa), con gli apparati deviati dello Stato per impedire alle sinistre, e nello specifico al PCI, di poter andare al governo del Paese, quelli, proprio quelli, sono gli stessi che inneggiano tanto a Trump quanto a Putin.

Si può, sulla nemmeno tanto falsariga del multipolarismo, parlare allora anche di un “multiculturalismo” e di un “multi-ideologismo” i cui riferimenti politici non hanno confini precisi e si determina in questo modo una costante osmosi tra posizioni apparentemente differenti ma, nel concreto, profondamente afferenti e contigue nel proporre alla mondialità un futuro di dominio di un’etica della socialità, dell’economia, persino della guerra, che deve necessariamente prevalere sulle altre.

Ora, i neofascisti che si sono riuniti a Bologna non sono in grado di pensarsi in questo schema globale e, effettivamente, sono una delle organizzazioni che sono utili al sistema di potere oggi dominante per seminare discordia, incertezza, rabbia, insicurezza e fare quel lavoro sporco che altri non possono fare, perché istituzionalizzati e rappresentanti ufficiali di un consenso popolare che ne legittima l’azione di governo.

Ma la funzione dell’estremismo di destra rimane, più o meno, allocata in un contesto antisociale e incostituzionale che ricalca le linee d’ombra del passato; quando la Repubblica era intenta a difendere la propria ragione democratica da un nemico interno, da una parte di sé stessa che meditava il ritorno del regime militare alla guida di una Italia degli anni Settanta frastornata dalle lotte intestine, dal terrorismo, dall’eco lontana dei fatti del Cile.

Se davvero il Paese avesse prodotto, nel corso della sua storia postbellica, una coscienza civile e sociale pienamente repubblicana, l’antifascismo, principio laico e democratico di uno Stato rinato dalle ceneri della dittatura nazifascista, dovrebbe essere la natura conclusione di ogni atto individuale e collettivo. E questo dovrebbe valere tanto per il singolo cittadino quanto per gli organi collegiali istituzionali.

Non dovrebbe esservi nessuno a Palazzo Chigi espressione di una forza politica che ha nel suo simbolo la fiamma tricolore del vecchio Movimento Sociale Italiano. Non vi dovrebbe essere alcun membro del governo incerto sul dirsi o non dirsi “antifascista” e, quindi, nel mettere in pratica l’interezza dei valori e dei princìpi costituzionali. Ma sappiamo che, invece, è esattamente il contrario.

Perché la coscienza nazionale è fratturata in due opposte fazioni che galleggiano in un brodo di coltura sempre più melmoso: autoritarismo di derivazione missina e neofascista un lato, democrazia e antifascismo dall’altro. Attorniati da una insoddisfazione che aumenta per l’insolvenza dei problemi sociali, per la crescita delle diseguaglianze, per la voluta incapacità della sinistra moderata di essere realmente dalla parte dei più deboli e di raggruppare attorno a sé un vero fronte progressista.

Se a Bologna è possibile, come in molte altre città d’Italia, che i neofascisti si radunino e venga loro permesso di sfilare, il problema è sempre a monte: perché non sono state sciolte tutte le organizzazioni che si richiamano, anche sotto altri nomi e simbologie, all’esclusivismo delle loro posizioni, non ammettendo nessun confronto democratico, ma esprimendo chiaramente un intento di neoautoritarismo e di violenza sistematica nelle loro azioni?

Perché i governi di centrosinistra non hanno sciolto queste organizzazioni? Nel nome della condivisione della memoria? Della cosiddetta “pacificazione nazionale“? Ogni volta che si è tollerato il neosquadrismo, che gli si è consentito di utilizzare le libertà democratiche per propagandare xenofobia, razzismo, omofobia, nazionalismo che viene declinato nella ricostituzione di uno Stato con una valenza “spirituale” come guida del popolo.

Questi movimenti e partiti si rifanno quindi ad una concezione messianica della conduzione istituzionale e subordinano la volontà popolare alla volontà espressa da una ideologia che si pone come cornice anti-etica, come elemento sovrastrutturale che non si vede in contraddizione con ciò che realmente genera le diseguaglianze: il capitalismo.

La loro propensione al sociale è puramente strumentale, perché è, più o meno, la ripresa di un socialismo nazionale che fa del classismo un piano inclinato su cui costruire uno Stato che non è solidale ma che, al massimo, tollera; che non è inclusivo ma che esclude tutti coloro che non si adeguano al nuovo ordine che vorrebbero instaurare. L’Italia “sociale e nazionale” che pretenderebbero di fondare è corporativa e etnocentrica.

La Costituzione è chiara: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». La norma venne disattesa già alla nascita del MSI che, in quanto erede di tutto il repubblichinesimo dell’ultimo periodo della dittatura mussoliniana, era proprio, esattamente quello: un nuovo partito fascista. Le discussioni giuridiche, le diatribe tribunalizie sono state innumerevoli. Tutto perfettamente legale perché “fatta la Legge, trovato l’inganno“.

Non possiamo certo chiedere, se non sapendo già la risposta che ne avremo, ad un governo di matrice di estrema destra, con un piede nel presente ed uno nel passato, i cui esponenti, in alcuni casi, non sono nemmeno lontanamente vicini a dirsi “antifascisti” ed a riconoscersi nella storia della Resistenza e al suo prodotto ultimo (ossia la Repubblica), di sciogliere le organizzazioni para e neofasciste dell’oggi.

Qui sì che peccheremmo di una colossale ingenuità. Ma la richiesta comunque va fatta, perché un governo della Repubblica italiana ha questo dovere: di preservare l’integrità costituzionale della Nazione e, quindi, di difendere la democrazia, la laicità dello Stato, contribuendo a mantenere intatta l’indipendenza dei poteri e tra i poteri.

La Bologna democratica e antifascista che è scesa in piazza contro la provocazione inserita nel contesto elettorale, strumentalizzando qualcosa di più del voto e del suo libero esercizio, sapeva di prestare involontariamente il fianco ad una propaganda di governo che si sarebbe scagliata contro l’antagonismo, l’anarchismo, il comunismo, i centri sociali e via discorrendo.

Non è una novità nemmeno questa. E perciò è necessario che ad una azione corrisponda sempre una reazione: e se l’azione è di matrice neofascista o neoautoritaria, la reazione deve essere antifascista e democratica, repubblicana e libertaria. Se non sono le istituzioni a difendere la Repubblica, tocca allora alla massima espressione della sovranità farsene carico: i cittadini, la gente.

La vittoria di Trump ha reso ancora più energica la rottura degli argini del linguaggio: per cui oggi l’offesa, l’insulto, la denigrazione fanno parte di un linguaggio che rischia di divenire prassi comune nel confronto tanto televisivo quanto istituzionale. Non sono rare le scene di sedute di consigli comunali in cui, non solo i rappresentanti delle singole forze politiche ma anche i sindaci e gli assessori, si producono in veri e propri spettacoli di muscolarità verbale e anche fisica.

Sembra di essere tornati ai primi del Novecento, quando si faceva largo lo squadrismo come metodo di risoluzione delle controversie, come addomesticamento del volere popolare ad un nuovo regime in crescendo. Abbiamo dalla nostra la lezione della Storia che ci avvisa per tempo. Nessuna sottovalutazione è ammessa.

Dobbiamo chiamarli col loro nome: autoritari, prevaricatori, xenofobi, omofobi, violenti, evitando l’abuso del termine “fascista” che viene strumentalizzato dal revisionismo delle nuove destre per far apparire le critiche delle opposizioni come vetuste, antiche, prive di un senso dell’oggi, di una modernità linguistica che è il viatico per una comprensione dei fenomeni in trasformazione.

Si tratta, naturalmente, anche di una grande impresa di rinnovamento culturale di un Paese scivolato nel qualunquismo e nel populismo a far data dal rampantismo craxiano e dal quasi trentennio di berlusconismo che ha plagiato, plasmato e ricostruito una Italia sulle fondamenta dell’egoismo, del self made man, dell’imprenditoria di successo e del privato a discapito del pubblico.

Nulla va sottovalutato. Ma il problema, come è chiaro (o come dovrebbe esserlo), riguarda qualcosa di più di questi gruppi eversivi. C’è un intento congiunturale tra una nuova forma istituzionale e una nuova antropologia socioculturale che può determinarsi come progetto moderno di evoluzione post-democratica, mantenendo formalmente tutte le libertà fondamentali.

Le apparenze ingannano. Per cui tocca sempre stare attenti ai fatti. A ciò che i governi fanno e alle modificazioni che intervengono nella società a seguito delle decisioni che prendono. I fascisti del nuovo millennio seminano quella punta estrema di odio che serve a destabilizzare le lotte sociale, tentando di dividere i poveri dai poveri nel nome di una morale e di una origine superiore: dell’italiano contro gli stranieri, dell’autoctono contro il migrante.

La destra divide e particolarizza. La sinistra dovrebbe unire e universalizzare: i concetti, i valori, i presupposti di una nuova “rivolta sociale“, come l’ha opportunamente definita Maurizio Landini. Una rivolta pacifica ma determinata, con le manifestazioni, gli scioperi e la “non collaborazione” (molto ghandiana) a mettere una serie di ostacoli, via via sempre più insuperabili, sulla via del cambiamento reazionario e autoritario.

MARCO SFERINI

12 novembre 2024

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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