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Michele Paris
In un verdetto che giunge con un ritardo di vent’anni, una giuria federale della Virginia ha finalmente ritenuto la CACI Premier Technology, una società di servizi di difesa statunitense, responsabile delle torture inflitte a tre civili iracheni nel famigerato carcere di Abu Ghraib durante l’occupazione statunitense dell’Iraq. La sentenza, salutata come una vittoria dai difensori dei diritti umani, ha assegnato 42 milioni di dollari complessivi ai tre sopravvissuti per i danni fisici e psicologici subiti. La cifra, tuttavia, non può compensare le atrocità vissute né risarcire le centinaia di altre vittime che rimasero intrappolate nell’incubo di Abu Ghraib.
La CACI, sotto contratto con il governo americano per fornire “servizi di interrogatorio” a prigionieri senza processo, è stata giudicata colpevole di cospirazione nella pratica della tortura, trattamento disumano e degradante. Le vittime, Suhail Al Shimari, Asaad Zubae e Salah Al-Ejaili – rispettivamente un preside, un fruttivendolo e un giornalista – furono sottoposte a una vasta gamma di abusi fisici e psicologici nel settore più oscuro della prigione irachena, un luogo che, nel corso del tempo, ha rivelato al mondo il lato più brutale dell’occupazione americana. Le immagini dell’orrore, scattate dagli stessi militari statunitensi, restano una ferita aperta e indelebile nella coscienza collettiva, simbolo delle violazioni dei diritti umani compiute sotto la copertura della “guerra al terrore”.
Nonostante il riconoscimento di responsabilità e il risarcimento stabilito per i tre sopravvissuti, questa sentenza lascia dietro di sé numerosi interrogativi sul sistema giudiziario americano e sui reali responsabili degli abusi. La CACI è, di fatto, solo una pedina nel complesso apparato di occupazione militare, e la condanna non tocca i veri promotori di queste politiche, ossia i più alti vertici della politica statunitense e delle forze armate. Basti pensare che, a seguito delle rivelazioni di Abu Ghraib, l’amministrazione Bush e i suoi principali collaboratori si limitarono a dipingere i crimini come incidenti isolati, quando invece fu una scelta sistematica e pianificata, volta a ottenere informazioni attraverso il terrore.
Nel periodo successivo all’11 settembre 2001, l’allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, il vicepresidente Dick Cheney e lo stesso presidente George W. Bush giustificarono l’uso di tecniche di interrogatorio violente, ignorando deliberatamente le convenzioni internazionali sui diritti umani. In seguito, l’inchiesta rivelò che le atrocità commesse ad Abu Ghraib non furono iniziative isolate di qualche soldato fuori controllo, ma parte di una politica strutturata per esercitare un controllo brutale sulle popolazioni irachene e afgane. Tuttavia, mentre alcuni soldati furono condannati e CACI oggi è chiamata a pagare, i veri responsabili restano immuni da ogni conseguenza.
CACI Premier Technology è solo uno dei tanti contractor privati assoldati dall’esercito americano per svolgere attività solitamente affidate alle forze armate regolari. A partire dal 2003, con l’invasione dell’Iraq, le società private hanno iniziato ad assumere un ruolo crescente nei teatri di guerra, spesso sottraendosi alla responsabilità legale grazie a complesse strategie giuridiche. Per oltre un decennio, CACI ha ostacolato la giustizia, tentando di far cadere il caso con ripetuti appelli e richieste di archiviazione. La sua connivenza nei crimini di Abu Ghraib non si limita a pochi episodi: numerose testimonianze riportano che i suoi interrogatori applicavano sistematicamente abusi fisici e psicologici, autorizzati o tollerati dagli ufficiali in comando.
Non meno significativa è la presenza di altre aziende di servizi militari, come Titan Corporation, accusata anch’essa di collaborare nelle pratiche abusive attraverso i suoi traduttori. Il ricorso a contractor privati ha permesso al Pentagono di estendere le proprie operazioni e ridurre al minimo le implicazioni politiche delle vittime americane, mantenendo allo stesso tempo una “negazione plausibile” rispetto alle accuse di violazioni dei diritti umani.
Abu Ghraib è il simbolo per eccellenza del fallimento morale della politica estera americana in Medio Oriente. Le immagini scattate all’interno del carcere mostravano soldati statunitensi che imponevano ai prigionieri di posare nudi in posizioni umilianti, terrorizzati da cani o costretti a simulare atti sessuali. Uno degli scatti più tristemente iconici ritrae un soldato con un prigioniero nudo al guinzaglio, un’immagine che rimarrà come marchio infamante nella storia dell’occupazione americana.
Queste foto fecero il giro del mondo, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale e sollevando forti dubbi sul rispetto delle convenzioni di Ginevra da parte degli Stati Uniti. Eppure, nonostante le prove schiaccianti e l’enorme pressione dell’opinione pubblica, la risposta del governo americano fu minima. Solo una dozzina di militari fu condannata per reati minori, mentre i veri artefici di queste pratiche, tra cui Rumsfeld, Cheney e Bush, rimasero del tutto impuniti. La narrativa ufficiale liquidò l’episodio come una serie di azioni isolate, lasciando intatti i meccanismi che permisero quelle atrocità.
Il risarcimento di 42 milioni di dollari, benché significativo, appare del tutto insufficiente a risarcire i crimini commessi e non intacca in alcun modo l’impunità di cui godono gli alti responsabili di queste operazioni. È una sentenza che lascia l’amaro in bocca, in quanto sembra quasi suggerire che la responsabilità morale e legale di Abu Ghraib possa essere monetizzata e che, pagando una somma, ci si possa sgravare dalle colpe per crimini contro l’umanità.
Questa vicenda mostra ancora una volta l’inadeguatezza del sistema giudiziario americano nell’affrontare i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani. Mentre contractor privati come CACI sono, in rare occasioni, chiamati a rispondere delle loro azioni, i responsabili governativi rimangono protetti da un sistema che difende solo gli interessi della politica estera statunitense.
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