La realtà del cosiddetto “Piano dei generali” non viene nemmeno più negata da Tel Aviv e mostra la vera brutalità dell’ultima operazione di Israele, che abbandona qualsiasi parvenza di limitazioni umanitarie e getta le basi per gli insediamenti. Un piano di fame e sterminio. Rimane solo l’Occidente chiuso nella più indomita ipocrisia.

La base di questo articolo è l’inchiesta realizzata dal magazine israeliano\palestinese  ‘+972’ pubblicata in Italia da Manifesto e Osservatore Romano.

Gaza, il ‘Piano dei generali’: pulizia etnica e reinsediamento

La storia dell’attuale operazione israeliana nella Striscia di Gaza Nord affonda le sue radici in decenni di conflitto, espulsioni forzate e reinsediamenti. Dal 1948, anno della Nakba, alla Naksa del 1967, lo schema è rimasto invariato: popolazioni palestinesi sfollate e ridotte allo stremo da un lato; coloni ebrei che celebrano la “redenzione” delle terre dall’altro.

Il “Piano dei generali”

Nel settembre 2023, Israele ha formalizzato il cosiddetto “Piano dei generali”, un progetto concepito per svuotare completamente la parte settentrionale della Striscia di Gaza.

Secondo le stime del piano, circa 300.000 palestinesi risiedevano ancora a nord del Corridoio Netzarim, una zona strategica che divide Gaza. Tuttavia, l’ONU ha indicato un numero superiore, vicino ai 400.000.

Il piano prevedeva una serie di fasi:

  1. Avvisi di evacuazione: Ai residenti è stato comunicato che avevano una settimana per spostarsi a sud attraverso due “corridoi umanitari”.
  2. Dichiarazione di zona militare chiusa: Al termine della settimana, l’area sarebbe stata sigillata, e chiunque fosse rimasto sarebbe stato considerato un nemico.
  3. Assedio totale: L’implementazione di un blocco totale mirava a intensificare la crisi alimentare e sanitaria, innescando quello che l’esperto israeliano Uzi Rabi ha descritto come un “processo di fame o sterminio”.

Questa strategia è stata giustificata come conforme al diritto umanitario internazionale, grazie all’avviso di evacuazione. Tuttavia, come chiarito nelle Convenzioni di Ginevra, tale avviso non annulla la protezione civile dei residenti e non legittima attacchi indiscriminati o il blocco di aiuti umanitari.

Una versione ancora più brutale

Nonostante le rassicurazioni ufficiali, la versione attuata è stata persino più draconiana:

  1. Mancanza di preavviso effettivo: Molti residenti non sono stati informati in modo adeguato e non hanno avuto un periodo ragionevole per evacuare.
  2. Violenza indiscriminata: Attacchi aerei, artiglieria e droni hanno preso di mira case, rifugi e ospedali, rendendo impossibile per i civili mettersi in salvo.

Questa escalation ha reso evidente che il vero scopo non era semplicemente la sicurezza, ma un’opera di pulizia etnica e reinsediamento. Le operazioni in corso dal 6 ottobre nei villaggi di Beit Hanoun, Beit Lahiya e Jabalia mostrano un quadro apocalittico: edifici ridotti in macerie, intere famiglie sterminate, residenti uccisi mentre cercavano di evacuare.

Un quadro di sterminio

Ad oggi, oltre 1.000 palestinesi sono stati uccisi nella Striscia di Gaza Nord solo nelle ultime settimane. Gli attacchi mirati hanno devastato ospedali e scuole, impedendo il soccorso ai feriti. Anche i pochi ospedali funzionanti, come il Kamal Adwan e l’ospedale indonesiano, sono stati bombardati, lasciando medici e pazienti senza alcun rifugio. Secondo Medici Senza Frontiere, la situazione è “immediatamente pericolosa per la vita”.

Con una campagna di sterminio in atto e una crisi umanitaria sempre più grave, appare evidente che le operazioni militari israeliane non sono solo una risposta a presunte minacce di sicurezza, ma il culmine di una politica sistematica di espulsione e reinsediamento.

L’assedio della fame: un’arma per lo sfollamento e il reinsediamento

Le operazioni militari nel nord della Striscia di Gaza sono state accompagnate da un assedio totale, che ha bloccato l’ingresso di cibo e forniture mediche per i residenti, suggerendo un’intenzionale politica di fame.

A partire dal 1° ottobre, ben cinque giorni prima dell’avvio ufficiale dell’operazione, Israele ha iniziato a sospendere i rifornimenti alimentari alla Striscia di Gaza, in modo da spingere i civili ad evacuare sotto la minaccia della carestia.

Questo blocco ha ricevuto una risposta dalla comunità internazionale: il 15 ottobre, gli Stati Uniti hanno emesso un ultimatum, richiedendo a Israele di consentire le spedizioni di aiuti entro un mese, pena il blocco delle consegne di armi. Tuttavia, gruppi umanitari hanno espresso perplessità su tale periodo di 30 giorni, ritenendo che fosse troppo lungo per garantire la sopravvivenza dei residenti.

Attacchi mirati alle risorse alimentari

Gli attacchi militari israeliani non si sono limitati a bloccare l’ingresso di aiuti, ma hanno preso di mira anche i pochi punti di distribuzione alimentare all’interno della Striscia.

Il 10 ottobre, l’esercito ha bombardato l’unico deposito di farina della zona, un crimine di guerra che contribuisce al crescente caso di genocidio esaminato dalla Corte Internazionale di Giustizia.

Quattro giorni dopo, un centro di distribuzione alimentare delle Nazioni Unite a Jabalia è stato colpito da un attacco aereo, causando la morte di dieci persone.

Una motivazione oltre la sicurezza

Secondo dichiarazioni del generale israeliano Giora Eiland, la motivazione ufficiale per l’operazione riguardava la presenza di “5.000 terroristi” nel nord di Gaza.

Tuttavia, numerose testimonianze di soldati israeliani e rapporti di intelligence riportano che tali scontri con Hamas sono stati sporadici. In realtà, alcuni alti funzionari della difesa israeliana avevano espresso dubbi sull’efficacia della manovra e sulla reale necessità di un intervento di tale intensità.

I recenti eventi e dichiarazioni da parte di esponenti dell’estrema destra israeliana suggeriscono che, più che un piano di sicurezza, l’operazione risponde a una visione di reinsediamento.

Il 21 ottobre, durante una cerimonia a tema “Prepararsi a colonizzare Gaza,” è stata esposta una proposta per la costruzione di insediamenti ebraici lungo tutta la Striscia, prospettando una “città tecnologica e verde” a Gaza City, che “avrebbe unito tutte le parti della società israeliana”.

Un futuro segnato dall’espansione degli insediamenti

Il movimento di destra Nachala, guidato da Daniela Weiss, ha già formulato piani concreti, con sei gruppi di insediamento e 700 famiglie pronte per stabilirsi nel territorio.

Tale progetto si sviluppa sulla base del Piano dei Generali che, seppur firmato da alti ufficiali, trova le sue radici ideologiche nell’organizzazione estremista Tzav 9, responsabile di azioni violente contro convogli umanitari.

In questo contesto, la comunità palestinese nel nord di Gaza sembra destinata alla completa espulsione, con attacchi indiscriminati e continui che lasciano alle vittime due sole scelte: la fuga o la morte.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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