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Le forze della destra radicale appaiono tra le maggiori sostenitrici dello stato minimo . Ma l’ultraliberismo è ormai un’arma spuntata, possibile solo con una forte coercizione. La paura che la prateria prenda fuoco è sempre più alta.

 di Pasquale Vecchiarelli  

Chiusi nella morsa dell’austerity, persa  la partita contro le banche -o forse mai realmente combattuta- il governo Meloni, per incassare soldi facili, si rifugerà (come al solito fanno i governi borghesi) nei “tagli sicuri” e, udite udite, nelle svendite di patrimonio pubblico. I tagli lineari annunciati sui ministeri, classica operazione di cassa da abc del manuale dello scolaretto alle prese con la sua prima esperienza da ministro dell’economia di destra, si ripercuoteranno, com’è ovvio, sul salario sociale; si tratta di un modo abbastanza classico per scaricare la crisi sulle spalle dei lavoratori, ciò di cui proprio non ne avevamo bisogno visto lo stato in cui versano i principali comparti pubblici a partire dalla sanità. E su questi tagli e le loro ripercussioni ci torneremo. L’aspetto su cui ci si vuole soffermare in questo articolo è l’altro pilastro dell’attuale finanziaria e cioè  la messa sul mercato degli asset fondamentali del patrimonio pubblico per un ammontare –sperato- di 20 miliardi di euro.  In particolare i soggetti individuati sarebbero Poste italiane ed Eni (anche se nel paniere delle svendite ci sono anche altri asset ). E’ dunque giusto il caso di chiedersi cosa significa che un fondo d’investimenti enorme come Black Rock o KKR acquista fette di ENI o di Poste Italiane, di Tim o RFI? Significa almeno due cose: intanto che questo fondo parteciperà alla ripartizione del plusvalore prodotto dalle medesime imprese e inoltre che prenderà posto nella loro governance potendo così deciderne in parte anche le sorti. La penetrazione di questi grandi capitali finanziari, transnazionali, all’interno degli asset strategici del nostro paese dovrebbe preoccupare molto: questi fondi non hanno come scopo lo sviluppo razionale e a fini sociali di un’impresa, quanto piuttosto il loro ingresso nel portafoglio ha finalità speculative: tanto velocemente questi capitali possono assorbirne altri più piccoli, tanto velocemente possono scaricarli dopo aver fatto cassa. 

Attraverso queste operazioni di acquisizione, inevitabilmente, si cederà una parte della sovranità su imprese italiane a capitali stranieri, in questo caso particolare a grandi fondi d’investimento la cui base è statunitense, realizzando esattamente l’opposto di quella che potrebbe definirsi una politica nazionalista borghese: i lavoratori italiani e gli asset nazionali finiranno per essere sfruttati dal capitale straniero! Una contraddizione enorme per chi come la Meloni si è caratterizzata come difensora degli interessi nazionali. 

Si tratta di un fenomeno analizzabile da diverse prospettive: la tendenza verso uno Stato minimo, ossia uno Stato che intervenga sempre di meno nell’economia, è una di queste. Tale tendenza ha caratterizzato la reazione neoliberista in Europa dell’ultimo trentennio che, tranne qualche eccezione come la Francia, ha visto la maggior parte dei governi impegnati nell’opera di smantellamento di tutte quelle forme di interventismo statale tipicamente novecentesche. E paradossalmente i governi che maggiormente stanno appoggiando quest’opera sono proprio quelli che più degli altri si qualificano come nazionalisti. E’ evidente che se lo Stato si tira lentamente fuori dall’economia, in questo mare magnum di squali a vincere saranno sempre i più forti in quanto i settori più deboli e più legati all’esportazione di merci, per reggere il confronto, hanno necessariamente bisogno di assistenza.

Di contro a questa spinta neoliberista e il conseguente depotenziamento della stessa sovranità popolare – delegittimando difatti anche il suffragio universale- sono sorti movimenti di protesta che hanno visto tra i soggetti promotori sia le classi subalterne che alcuni settori della piccola e media borghesia. Tale protesta però, anche per incapacità dei settori maggiormente coscienti del proletariato, è stata essenzialmente accumulata intorno ad un programma populista, tendenzialmente di destra, sovranista solo nella facciata,  portato avanti da soggetti o maggioritariamente qualquisti come il cinquestelle delle origini o neofascisti come la Lega e da ultimo Fratelli d’Italia. L’alternanza del governo non si è tradotta poi in una vera alternanza di linea e la rotta  neoliberitsta è stata mantenuta, al contempo però lo scenario e le condizioni esterne sono drammaticamente cambiate e peggiorate. 

L’inflazione galoppante quale corollario della guerra, la generale crisi del capitalismo in termini di capacità di allargare l’accumulazione –con ciò che ne consegue in termini di superiore saggio di sfruttamento della forza lavoro-, la perdita di egemonia in alcune colonie e da ultimo l’avvio di una tendenza al protezionismo, sta mettendo in evidente crisi il modello ultraliberale dello Stato minimo che mal si adatta alla fase attuale visto che tra le altre cose non riesce più a garantire quel cuscinetto di resistenza e passivizzazione tanto utile alla classi dominanti e che va sotto il nome di aristocrazia proletaria ossia un’ampia classe media in condizione di benessere sociale.

Una prima forma di mediazione sembra essere quella proposta da Draghi con la sua agenda la quale prevede di sospendere momentaneamente l’idea ultraliberista di Stato minimo introducendo forme di investimento ma principalmente orientate  all’ambito tecnologico per la produzione di armi.  Di contro a tale linea però sembrano porsi gli ultraliberisti alla Lindner (ex ministro del governo Scholz) i quali preferiscono alla politica del compromesso la vecchia e consolidata linea del rigore.  

La vittoria di Trump ha spinto la prima potenza europea a rivedere immediatamente le proprie posizioni facendo esplodere le svariate contraddizioni interne alla borghesia, tra le più evidenti appaiono quelle tra i settori maggiormente legati al mondo della produzione di merci, che propongono politiche ultraliberiste e hanno più interesse alla ripresa del mercato ponendo anche fine alla guerra, pronti anche ad allearsi con forze della destra estrema, e quelli  più interessati alla produzione di armi e maggiormente legati alla finanza, più legati ad una visione transnazionale e che oggi  puntano all’agenda Draghi che sostanzialmente si fonda sulle armi.

Visto che anche il governo più di destra e più sfacciatamente autoproclamatosi nazionalista (a parole) sta fallendo la sua missione “salva-italia”, verrebbe da chiedersi se è possibile oggi – e cosa significherebbe-  una politica per l’autodeterminazione della nazione.

Tale questione ha senso esaminarla visto che il nostro paese da un lato e cioè verso i mercati e i paesi economicamente più deboli, esercita, in brigata con il resto di imperialisti occidentali, il proprio dominio coloniale, per l’altro verso, cioè per il verso delle collisioni interne all’imperialismo, il nostro paese deve fare i conti con i paesi più forti e potenti della propria brigata. In questo senso il lavoratore italiano ha visto affacciarsi sempre di più l’ombra di un padrone più grande che si nasconde dietro al proprio padroncino locale, un’ombra che man mano non solo “assorbiva” la fabbrica dettando le leggi dell’economia, ma diveniva sempre più pervasivo, attraverso le sue sovrastrutture politiche internazionali, nella sfera della politica. Ovviamente questo è avvenuto di comune accordo tra le borghesie anche perché  vi è sempre una relazione dialettica tra economia e politica e non si può pensare di essere inseriti in una relazione economica, in un mercato più grande che inevitabilmente prevede un patto per la ripartizione del plusvalore, senza che ciò non si traduca sul piano politico. 

In un recente articolo abbiamo trattato questo tema del significato di una lotta di liberazione nazionale per una nazione come quella italiana la cui connotazione economico-politica  è di stampo imperialista. La prima questione che andrebbe dunque risolta nel merito del tema della “liberazione nazionale” sarebbe quella di capire se si sta parlando, nei riguardi dell’Italia,  di una nazione oppressa, oppure, al contrario, si tratta di una nazione che opprime.

Appare del tutto evidente che la nazione italiana, già formata in senso capitalistico da anni, dove le classi sociali sono chiaramente sviluppate, vede lo stadio dell’economia capitalistica giunto nella sua fase terminale del processo di accumulazione ossia quella fase che necessita, per allargarsi, di collidere con altri capitali o conquistare ambienti non capitalistici. L’imperialismo italiano è intrecciato in una dinamica internazionale, tipicamente descritta dall’espressione “fratelli nemici” e tutte le controriforme che la borghesia nostrana ci impone, come pure le scelte di politica internazionale, anche contro gli interessi nazionali, sono, in realtà, solo apparentemente imposte, ma piuttosto rientrano in una logica di piano coordinata secondo le leggi dei rapporti di forza tra capitali.

Da questo punto di vista l’autodeterminazione nazionale non può prendere la strada di una lotta contro il capitale straniero da combattere fianco a fianco con il capitale nostrano, ciò significherebbe non aver compreso cosa significa fino in fondo lo stadio imperialistico dell’economia,  ma capire che appunto a questo stadio dell’intreccio capitalistico l’unica strada per l’autodeterminazione nazionale è la lotta contro il proprio imperialismo e contro l’insieme della brigata di cui esso è complice. 

Certo nell’attuale fase dell’economia italiana il capitalismo ha sovraprodotto anche la “piccola impresa” sempre più travolta dal grande capitale e in via di proletarizzazione. Nella lotta contro il proprio imperialismo va tenuto conto di ciò, esaminando attentamente il problema dell’egemonia verso quei settori le in generale sui ceti medi. 

L’autodeterminazione nazionale è un tema sempre molto complesso e scivoloso da affrontare perché implica la giusta connotazione del termine nazione e interessi nazionali. Contrariamente a quanto spesso ci viene propinato da tanta propaganda post-moderna sulla fine delle nazioni per via delle “grandi catene del valore”,  che oggi avrebbero unito e messo al lavoro tutto il mondo come fosse un sol uomo, le nazioni esistono ancora in quanto patrimonio di cultura, “di simpatie e antipatie”, espressioni di una storia lunga che segna nel profondo la cultura di un popolo e che non si cancella con un trattato o un accordo internazionale basato sulla circolazione delle merci.  Possiamo dire con Lenin che proprio il continuo sviluppo in senso imperialistico e brigantesco dell’economia, produce scontri nazionali e amplifica le “antipatie” tra i popoli,  mentre è proprio nel socialismo, cioè quando tutte le nazioni saranno democraticamente libere di autodeterminarsi evidentemente prevarranno le “simpatie”. Oggi la lotta per l’autodeterminazione in un paese economicamente avanzato come il nostro coincide con la lotta per il socialismo.

https://www.lacittafutura.it/editoriali/svendono-la-patria-si-chiamano-nazionalisti

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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