Macerie e morte: è quanto resta di Khan Yunis, la seconda città più importante della Striscia di Gaza, rasa al suolo dall’esercito israeliano. Metà degli edifici è completamente distrutta e non esiste più alcun tipo di infrastruttura. Dopo il ritiro dell’esercito di Tel Aviv avvenuto il 7 aprile scorso, molti residenti della città hanno percorso otto chilometri per cercare di tornare nelle loro case da Rafah, dove si erano rifugiati per sfuggire agli attacchi, ma i più sono stati costretti a tornare indietro perché non hanno trovato più nulla, se non pochi ricordi e gli oggetti che non sono stati razziati. Sono diverse le testimonianze e i video di palestinesi che descrivono la desolazione che regna a Khan Yunis: «puzza di morte» ha detto al media qatariota Al-Jazeera Maha Thaer, madre di quattro figli, mentre tornava nella sua casa devastata, aggiungendo che «Non abbiamo più una città, solo macerie. Non è rimasto assolutamente nulla. Non riuscivo a trattenermi da piangere mentre camminavo per le strade». Dopo mesi di bombardamenti e di combattimenti, i servizi sanitari e di emergenza sono andati completamente distrutti e i corpi delle vittime dei bombardamenti israeliani sono rimasti per mesi sotto le macerie. Tutte le strade sono state distrutte dai bulldozer e alcuni residenti hanno detto che non riuscivano a riconoscere le strade dove hanno vissuto tutta la vita.

Nella città rasa al suolo e nei suoi dintorni abitavano circa 400.000 palestinesi che ora non hanno più un posto dove vivere. Un testimone ha riferito a BBC News che «le case sono inabitabili, nelle moschee non si può pregare, e le strade, le infrastrutture, persino le linee elettriche, sono state tutte distrutte». Alcuni palestinesi, tuttavia, hanno deciso di rimanere, sostenendo che le abitazioni semi-distrutte di Khan Yunis sarebbero meglio dei campi profughi di Rafah. Due ricercatori statunitensi che hanno studiato le immagini satellitari della zona hanno concluso che il 55% dei 45.000 edifici della zona sarebbe stato distrutto. Tra le macerie compaiono anche alcuni veicoli militari israeliani abbandonati perché danneggiati, i resti dei loro pasti, alcuni libri in ebraico e i segni lasciati all’esterno dai cecchini per segnalare ai commilitoni la propria presenza. L’aria è irrespirabile a causa dell’odore e della polvere e quel che è certo è che nessuno per ora può pensare di tornare per viverci in un futuro prossimo. Alcuni commentatori palestinesi hanno definito Khan Yunis come una città post-apocalittica.

Una donna piange sulle macerie di una casa distrutta a Khan Younis. [Credit: Jehad Alshrafi/Anadolu]

Khan Yunis era già stata oggetto in passato di violenti massacri da parte dello Stato ebraico, anche se quello recente risulta in assoluto il peggiore: durante la crisi di Suez ebbe luogo, il 3 novembre 1956, il massacro di Khan Yunis. Secondo lo storico israeliano Benny Morris, durante un’operazione delle forze di difesa israeliane per riaprire lo stretto di Tiran, i soldati israeliani hanno sparato a duecento palestinesi a Khan Yunis e Rafah. Mentre nel 1967, durante la guerra dei Sei giorni, Tel Aviv occupò di nuovo la città meridionale dell’enclave. Il centro abitato, inoltre, è stato bersaglio di attacchi israeliani in elicottero nell’agosto 2001 e nell’ottobre 2002 che hanno causato la morte di numerosi civili, centinaia di feriti e la distruzione di edifici civili nelle vicinanze.

Nonostante l’immane distruzione e la morte di migliaia di persone e al contrario di quanto riferisce la narrativa israeliana e occidentale guidata dal premier Benjamin Netanyahu, Tel Aviv è ancora ben lontana dal raggiungere i propri obiettivi e dallo sbaragliare Hamas, come ha riferito esplicitamente un articolo del quotidiano israeliano “Haaretz” dal titolo “L’esercito israeliano ritira le truppe dal sud di Gaza senza raggiungere i suoi obiettivi primari”. L’autore scrive che “i due obiettivi principali dell’operazione Khan Yunis non sono stati raggiunti. I due massimi funzionari di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar e Mohammed Deif, rimangono latitanti. E non si è verificato alcun progresso nel salvataggio degli ostaggi israeliani tenuti a Gaza”. In modo ancora più esplicito, scrive nero su bianco che “l’enorme morte e distruzione che l’IDF sta lasciando a Gaza, insieme ad alcune perdite da parte nostra, non ci stanno attualmente avvicinando al raggiungimento degli obiettivi della guerra. Le capacità militari e governative di Hamas vengono gradualmente degradate, ma l’organizzazione non è vicina alla sconfitta”.

Un uomo cammina tra le macerie di Khan Yunis

A livello internazionale cresce lo sdegno dell’opinione pubblica per l’alto numero di civili uccisi e molti governi cominciano parzialmente a prendere le distanze dalle azioni del governo di Netanyahu. Nonostante ciò, il primo ministro israeliano aveva spiegato che il ritiro delle truppe da Khan Yunis era funzionale per preparare i soldati all’invasione di Rafah dove si sono rifugiati più della metà dei 2,3 milioni di abitanti della Striscia di Gaza. Il piano di invadere e bombardare il punto più a sud della Striscia ha incontrato la disapprovazione degli Stati Uniti per via del bagno di sangue che un’operazione del genere comporterebbe. Washington ha quindi intimato a Israele di provvedere a mettere al sicuro i civili: tuttavia, se l’idea era quella di ritirarsi da Khan Yunis per permettere a una parte degli sfollati di tornare nella città di origine, ciò appare del tutto impossibile, poiché il centro urbano è completamente distrutto e inabitabile. Khan Yunis è diventata una città fantasma, simbolo della furia distruttiva dell’esercito israeliano che poco sembra avere a che fare con la distruzione di Hamas, il quale peraltro è ben lungi dall’essere sradicato dal territorio.

[di Giorgia Audiello]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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