Con decreto del Ministro dell’istruzione n. 161 del 14 giugno 2022 è stato adottato il Piano Scuola 4.0, il ramo di investimenti in ambito educativo e scolastico dell’arborescente PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Il progetto è stato delineato sulla scia di azioni già attivate precedentemente grazie ai fondi del PNSD e del PON per la scuola, con i quali dal 2014 al 2021 sono stati finanziati con 1,9 miliardi di euro l’acquisto di dispositivi e tecnologie digitali (quali schermi, computer, registri elettronici, connessioni in fibra ottica, sistemi di gestione informatizzati), ma anche formazione tecnica ai docenti e veri e propri ambienti didattici digitali. L’urgente obiettivo dichiarato con il Piano Digitale 4.0 è quello di “accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana e allinearlo alle priorità dell’Unione Europea”La missione prevede cospicui investimenti soprattutto nella Didattica Digitale Integrata (DDI) – percepita dai sostenitori del Piano 4.0 come uno strumento inclusivo e rivoluzionario -, nello sviluppo didattico di competenze maggiormente legate ai lavori del futuro come scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, nella formazione digitale di docenti e nella costruzione di innovativi laboratori di apprendimento – tali principalmente per via dell’uso di nuove tecnologie come realtà virtuale e aumentata. Il più grande teatro sperimentale di queste pratiche digitali sono stati sicuramente gli anni della pandemia. Nella maggior parte dei governi occidentali la dichiarazione di lockdown fu accompagnata dalla chiusura temporanea delle scuole e, persino nella loro successiva riapertura, dal continuo tracciamento di casi positivi tra studenti e docenti, al fine di escludere gli infetti reali o potenziali dalle lezioni in presenza. La Didattica A Distanza (DAD) si è diffusa più del virus stesso, talvolta intervallata da fasi ibride di Didattica mista (DDI). Gli strumenti digitali, così come in tutta la società in generale, sono stati adottati con la certezza che potessero eliminare o almeno ridurre il rischio di contagio.

Nel presente articolo si rifletterà sull’origine e sull’impatto che queste pratiche hanno avuto e continuano ad avere nell’ambito scolastico e, di conseguenza, relazionale.

Quello che per un osservatore attento era evidente, e cioè che la cosiddetta pandemia sarebbe stata usata come pretesto per la diffusione sempre più pervasiva delle tecnologie digitali, si è puntualmente realizzato.

L’emergenza Covid-19 giustifica il fatto che i budget per le scuole pubbliche vengano riconvertiti per finanziare le infrastrutture tecnologiche, le aziende di educazione digitale online e l’educazione basata su IA, piuttosto che per le infrastrutture fisiche e gli insegnanti umani.

Giorgio Matteucci, Il libro nero della scuola

Il 4 febbraio 2020 il Dipartimento dell’Istruzione del Governo degli Stati Uniti pubblica sul Registro Federale la proposta di un nuovo regolamento per la formazione a distanza. Viene raccomandato l’apprendimento adattivo basato sull’intelligenza artificiale e sono promossi i programmi su abbonamento, ovvero servizi di e-learning offerti da società di istruzione online e di software (disponibili 24 ore su 24), il cui costo dipende dal tempo di raggiungimento dello studente di una determinata competenza. Il Vecchio Continente non è da meno: infatti il 30 settembre 2020 la Commissione Europea rilascia il documento Piano d’Azione per l’istruzione digitale 2021- 2027, figlio legittimo del regolamento americano. La strada DAD è stata percorsa anche quando sono emerse prove scientifiche sufficienti sull’inutilità della chiusura delle scuole in termini di diminuzione del contagio[1]. È scandaloso l’episodio che ha visto protagonisti l’American Federation of Teachers (il più grande sindacato degli Stati Uniti) e il CDC (Centre for Disease Control) in uno scambio di mail: il primo avrebbe esercitato una forte pressione sull’agenzia sanitaria nazionale affinché le scuole rimanessero chiuse anche per l’anno scolastico 2021-2022. Nonostante l’assenza di prove scientifiche che dimostrassero la necessità di tenere le scuole chiuse per poterne trarre benefici sanitari collettivi, il CDC ha accolto le pressanti richieste del potente sindacato americano. Non si comprende come proprio chi dovrebbe rappresentare i diritti di studenti e insegnanti sia dalla parte della clausura didattica, dato che la scuola è prima di tutto un ambiente relazionale, e poi di apprendimento. Ma cosa ancora più grave è che tali decisioni sono state raggiunte senza una reale discussione da parte di un comitato indipendente pedagogico-educativo, o di una commissione autonoma che si preoccupasse di tutelare la privacy degli studenti. Non c’è stato un dibattito pubblico su cosa comporti la registrazione delle performance scolastiche in termini di sorveglianza attuata e percepita, sulla raccolta e potenziale diffusione dei dati personali, e pure rispetto all’efficacia educativa e didattica delle lezioni online. Rispetto al tema dell’apprendimento, ad esempio, sono significative le ricerche condotte dal Prof. Giuseppe Riva, Direttore del Laboratorio Sperimentale di Ricerche Tecnologiche applicate alla Psicologia di Auxologico e Professore ordinario di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Riva afferma che nella DAD viene meno la stimolazione dei cosiddetti neuroni specchio, ovvero una classe di neuroni che si attivano selettivamente sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva mentre è compiuta da altri e che pertanto sono ritenuti centrali nel processo di apprendimento. Un altro tipo di neuroni che non vengono attivati nella DAD sono i neuroni gps, che inizialmente si pensava servissero soltanto per l’orientamento spaziale, ma che in realtà hanno un ruolo imprescindibile nella memoria autobiografica. In sostanza ricordiamo i luoghi insieme agli eventi che si svolgono al loro interno, sia nella vita quotidiana, sia in situazioni di apprendimento scolastico. Secondo le ricerche del Prof. Riva la mancata attivazione di questo gruppo di neuroni nella DAD è dovuta all’impossibilità di connettere l’esperienza e la sua ubicazione nel tempo e nello spazio. Non si coglie, dunque, quale siano i benefici didattici del trasferimento online e a distanza delle lezioni, ma è certo che l’insieme delle metodologie didattiche digitali non sono da inquadrare in un contesto prettamente emergenziale, ma anzi rappresentano direzioni precedentemente discusse e intraprese.

La scuola non è un luogo per accumulare conoscenze, il mondo oggi è pieno di informazioni, la scuola oggi serve per tenere insieme la complessità del mondo digitale.

Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, 2021

L’uso di Device digitali in ambito didattico e la proliferazione di piattaforme di formazione online sono da inquadrare in un rinnovamento tutt’altro che democratico. Da un lato, infatti, persistono modalità estrattive di profitto del “ buon vecchio” modello capitalista, come espropriazione di materie prime per la costruzione di batterie e microchip, quali Coltan e Litio, e sfruttamento dei relativi lavoratori; dall’altro i nostri corpi, o più nello specifico le scelte che compiamo e i gusti che esprimiamo attraverso i dispositivi digitali, producono dati potenzialmente sfruttabili da istituzioni per scopi di sorveglianza e da grandi aziende per conseguenti enormi (e a costo rasente allo zero) benefici economici. Scrive il giornalista americano Peter Greene: “se i dati sono il nuovo petrolio, allora le scuole pubbliche sono il nuovo Texas”.

Ne Il libro nero della scuola l’insegnante e ricercatore italiano Giorgio Matteucci riporta numerosissimi esempi di tentativi, talvolta riusciti, talvolta falliti, di estrazione di dati sensibili tramite la profilazione scolastica. Uno di questi è il progetto InBloom, lanciato nel 2011 dalla Fondazione Bill & Melinda Gates e la Fondazione Carnegie, con un investimento iniziale di 100 milioni di dollari, volto a creare una piattaforma centralizzata per la condivisione di dati, app di apprendimento e programmi di studio. I dati si vogliono archiviare in un cloud gestito da Amazon.com, con un sistema operativo creato Wireless/Amplify, offrendoli, dunque, a società a scopo di lucro. Si tratta del primo tentativo di introdurre piattaforme di condivisione dei materiali scolastici, con l’ovvia intenzione di estrapolare dati sensibili, nuova materia prima del capitalismo digitale. Nel 2014, tuttavia, il piano di condivisione di dati viene interrotto in tutti gli otto Stati o distretti originariamente indicati come partner di InBloom, ad eccezione dello Stato di New York, anche grazie alle proteste dei genitori americani, scettici riguardo alla compatibilità tra il progetto e la legge sulla privacy personale. Ma la corsa al reperimento dei dati negli ambienti scolastici è appena iniziata. Nel 2009 viene introdotta, sempre in territorio USA, ma poi riprodotta negli stati europei, l’idea dei Common Core State Standard, dei veri e propri standard di apprendimento per misurare il livello scolastico a livello nazionale. Lo sviluppo di questo progetto è ampiamente finanziato dalla Fondazione Bill & Melinda Gates, che investe 200 milioni di dollari. Matteucci definisce i Common Core come un “grande regalo per le aziende High Tech”, dato che i test saranno eseguiti online, con il conseguente acquisto da parte di ogni distretto scolastico di computer, nuovi materiali didattici e un’aggiornata larghezza di banda per la connessione. La storica dell’istruzione e analista politica educativa Diane Silvers Ravitch denuncia, in accordo con un’analisi del Pioneer Institute, la costituzione del gruppo di scrittura del progetto, che conteneva pochi educatori e un numero significativo di rappresentanti dell’industria dei test. Nella stesura e nella successiva approvazione del progetto, dunque, non solo non sono stati presi in considerazione i conflitti di interesse, ma nemmeno sono state indagate le possibili ripercussioni negative a livello educativo, come l’ansia da prestazione degli studenti e l’obbligo di adeguamento metodologico degli insegnanti in vista della preparazione ai test.

La continua ingerenza delle compagnie private nel settore pubblico, lo sfruttamento economico dei dati sensibili di alunni e insegnanti e la trasformazione degli studenti in utenti, nonché consumatori di prodotti digitali, è perfettamente in linea con il ruolo sociale, economico e (a)politico dei lavoratori-cittadini contemporanei.

[…] il problema fondamentale è la concezione della scuola sviluppata nel sistema capitalistico, secondo la quale i giovani devono venire educati ad inserirsi nel sistema imparando quanto richiesto dal sistema stesso, anziché imparare ad entusiasmarsi per il mondo che li circonda, sviluppando forza di volontà, sensibilità per il buono e il bello e capacità di giudizio autonomo.

Fabio Alessandri ne Il libro nero della scuola

Al di fuori delle istituzioni scolastiche è ormai assodato un modello produttivo e sociale che prevede l’incessante bombardamento di brevi e superficiali informazioni visive, sonore e testuali, provenienti contemporaneamente da diverse fonti (telefoni, schermi diffusi per la città, modalità di discussione lavorative e quotidiane sincopate, etc…), e il trasferimento digitale di azioni ed esperienze più disparate. Regnano la distrazione, il continuo assorbimento di dati utili al profitto tramite i device, l’esigua capacità critica di organizzare informazioni, contorte e propagandistiche, l’individualismo sfrenato e la scarsa empatia. I nuovi lavoratori-cittadini non sono preoccupati di ciò che accade a un metro da loro – anche perché le concezioni di luogo e durata sono oscurate dall’interiorizzazione delle astratte coordinate spazio-temporali digitali-, non hanno un senso di classe e neppure di generale collettività; sono per lo più rassegnati rispetto all’aumento della mole lavorativa e la diminuzione del proprio potere d’acquisto. Dunque, se questo è un frame, magari pessimistico ma di certo non fantasioso, della società esterna alle istituzioni scolastiche, per quanto la scuola non sia e non debba certo essere una fortezza isolata, perché non può avere un ruolo sociale diverso? Perché non può garantire l’accesso alla conoscenza, anziché l’accesso all’informazione? Magari promuovendo laddove e solo laddove possa avere un effettivo beneficio un uso ecologico e consapevole delle nuove tecnologie.

La nostra scuola del futuro: scollegati per apprendere.

Abbiamo terminato il discorso sopra con alcune riflessioni sul ruolo delle istituzioni scolastiche e dei suoi protagonisti rispetto a un modello scolastico in cui la digitalizzazione è stata imposta dall’alto. Si metteva in guardia rispetto alle “innovative” metodologie didattiche promosse dal Piano Digitale 4.0, dietro alle quali si cela una precisa volontà di far aderire i principi educativi ai nuovi modelli sociali e soprattutto produttivi.

Bisogna rifiutare una concezione utilitaristica della scuola: non studiamo le tabelline per imparare a fare i calcoli nella vita quotidiana, ma per espandere la mente e svilupparla cognitivamente. L’architetto e insegnate Rudolf Steiner ha ricercato e praticato un modo alternativo per aiutare a sviluppare le attitudini degli studenti, lontano dalla formazione professionale e dalla produttività economica. È questo un punto centrale per promuovere una vera scuola del futuro: imparare attività manuali ed esplorare la conoscenza intellettuale per sviluppare le proprie inclinazioni e il proprio punto di vista sul mondo.

L’insegnamento non è solo un freddo passaggio di informazioni, ma è una relazione tra due esseri umani, in cui uno è assetato di conoscenza e l’altro è votato a trasmettere tutto il proprio sapere, umano ed intellettuale.

Rudolf Steiner

In Contro il colonialismo digitale il filosofo Roberto Casati si preoccupa di come la fede digitale possa compromettere lo sviluppo cognitivo e personalistico dell’alunno, da un lato a causa dell’utilizzo di device per (dis)apprendere e dall’altro perché l’insegnante è sempre più concepito come “nastro trasportatore di contenuti”. Riflette Casati: “Se l’insegnante serve solo a trasmettere contenuti perché non sostituirlo con qualsiasi altro trasmettitore di contenuti? Ma rendere digitale il nastro trasportatore, aggiungere contenuti multimediali, interattivi e via dicendo, non ne cambia la sostanza”. Incentivare l’uso delle nuove tecnologie per veicolare un contenuto scolastico, puntando ad ammaliare gli studenti, significa ammettere che non sia possibile rendere accattivante l’oggetto della conoscenza: il sapere. Quando la presenza affascinante di robot, device e app-learning smetterà di essere una novità nell’immaginario scolastico, occorreranno nuove tecniche seduttive per gli studenti, sempre più lontane dal contenuto della disciplina e dalla necessaria mediazione (o ruolo guida) dell’insegnante. Non devono essere i mezzi digitali gli attivatori del desiderio di imparare, ma la capacità dell’insegnante di far innamorare gli alunni con pratiche creative, discussioni stimolanti e perché no, talvolta con l’uso consapevole di strumenti tecnologici.

È sempre Casati a criticare l’atteggiamento con cui vengono giustificati i grandi investimenti in ambito tecnologico-scolastico: la chiama normatività automatica, ovvero l’adozione in sede educativa di una data tecnologia perché divenuta normativa nel contesto sociale. Ma perché la scuola deve adattarsi ciecamente ai cambiamenti sociali, percepiti comunemente come ineluttabili? Potrebbe, anzi, essere una “zona di tranquillità da cui guardare la società con tutta calma”, riflettendo al di fuori certi meccanismi e magari anche criticandoli attraverso pratiche educative e relazionali alternative.

Eppure, la retorica su cui si regge la spinta verso la digitalizzazione degli strumenti, dello spazio e delle metodologie didattiche, millanta di prendere in considerazione i reali bisogni e desideri dei nuovi “nativi digitali”. Con questo termine, introdotto la prima volta nel lontano 2001, dallo scrittore e oratore americano Mark Prensky nell’articolo Digital Natives, Digital Immigrants in On the Orizon, e diffuso in Italia in ambito accademico dal docente dell’Università Bicocca di Milano Paolo Ferri, si intende descrivere la generazione nata in concomitanza con la diffusione capillare dello smartphone e di altre tecnologie normative. L’etichetta dal sapore seducente e moderno è però poco convincente sul piano dei contenuti. La terminologia “nativo”, infatti, avrebbe senso se si dimostrasse che l’abitudine alla manipolazione di interfacce digitali fosse una competenza simile a quella linguistica. L’uso di uno smartphone potrebbe al limite essere paragonato alla decodificazione di un libro, dato che entrambe le competenze possono essere acquisite a qualsiasi età e a prescindere dal contesto madreluinguistico in cui si cresce. Inoltre, le argomentazioni di Prensky, Ferri e i loro seguaci si basano su un’altra colonna di polistirolo: il fatto che esista un’intelligenza digitale. Come fa notare sempre Casati, il loro errore sta nel considerare “intelligenza il semplice aver imparato a saper fare certe cose, se non l’essersi abituati a oggetti che le fanno per loro”; per altro oggetti che sono sempre più complessi al loro interno e con un design che permette di farli funzionare attraverso scelte semplici, binarie immediate, che non richiedono un approfondimento intellettuale né da parte del docente, né da parte del discente. Utilizzare una data tecnologia dai primi anni di vita fino all’adolescenza non significa conoscerne il funzionamento delle architetture informatiche, ma anzi subire la fascinazione per le sue potenzialità di utilizzo come si venera un oggetto magico. E dunque, dato che questi device non sono neutrali, il matrimonio tra la scuola e la tecnologia comporta una maggiore predisposizione a una vera e propria colonizzazione della mente da parte delle grandi compagnie High Tech. Entrando nel vivo della didattica, ad esempio, come possiamo fare una ricerca scientifica e consapevole, con la relativa selezione delle fonti, rispetto a un argomento qualsiasi attraverso Google se non comprendiamo i meccanismi sottesi all’indicizzazione dei contenuti che troviamo sulla piattaforma?

Se non esiste un dato sulla ‘mutazione antropologica’ [dei cosiddetti nativi digitali], il problema che la scuola deve affrontare non è quello di adattarsi a fantomatici nuovi tipi di intelligenza, ma di fare in modo che l’intelligenza e la cultura possano sbocciare in un contesto in cui la dispersione rende difficile questa missione.

Roberto Casati, Contro il colonialismo digitale

Rispetto ai desideri dei “nativi digitali”, inoltre, è significativo un Rapporto OCSE-PISA del 2018: solo il 7% dei ragazzi e quasi nessuna ragazza ha interesse a lavorare nell’ambito delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC). Vi è poi il tanto citato multitasking, che caratterizzerebbe la predisposizione mentale delle nuove generazioni. Anche questo concetto appare ammaliante e moderno, se non fosse in realtà un’abilità vecchia come il genere umano. È interessante un esperimento del 2009 condotto da alcuni ricercatori della Standard University (Eyal OphirClifford Nass e Anthony Wagner) che ha coinvolto 262 studenti. Gli alunni son stati divisi in due gruppi, multitasker e non multitasker, e sottoposti ad alcuni test di abilità mnemonica. È emerso che i primi sono più suscettibili alla distrazione verso le interferenze esterne, nonché sono risultati dotati di minore capacità mnemonica. Questo perché, come spiegano gli autori dell’esperimento, i multitasker hanno meno capacità di controllo cognitivo nella gerarchizzazione delle informazioni (più o meno importanti ai fini del test) e di conseguenza minore abilità mnemonica rispetto ai contenuti. Riguardo alla compromissione della memoria tramite l’uso di device è rilevante lo studio del 2011 di Betsy Sparrow, ricercatrice dell’Harvard University, pubblicato su Science. Il titolo italiano della ricerca, già di per sé esplicativo, è “L’influsso di Google sulla memoria. Gli effetti della disponibilità permanente di informazioni sul nostro pensiero” e si divide in quattro esperimenti. Per spiegare i risultati dello studio l’autrice utilizza il concetto di Zeigarnik, che prende il nome dalla psicologa Bluma Zeigarnik operante a Berlino negli anni venti dello scorso secolo, e indica la maggiore facilità di ricordare le storie concluse rispetto a quelle non ancora terminate. Lo studio della Sparrow dimostra come le azioni incompiute rimangano più impresse nella memoria rispetto a quelle portate a termine: pertanto la permanente possibilità di ricercare il dato su piattaforme digitali come Google risulta dannosa ai fini della memorizzazione e del conseguente apprendimento dello stesso. In sostanza, deleghiamo ai motori di ricerca e ai cloud azioni che potrebbero essere memorizzate maggiormente se svolte senza l’uso di tali strumenti.  L’effetto è la non stimolazione o nel peggiore dei casi l’atrofizzazione dei sensi tramite un approccio educativo completamente digitale.

La sovraesposizione alla tecnologia può ostacolare capacità come il tracciamento oculare (un’abilità necessaria per la lettura), i livelli di neurotrasmettirori e la facilità con cui gli studenti ricevono le immagini fantasiose che sono fondamentali per l’apprendimento. L’utilizzo dei media nella fascia pediatrica e adolescenziale può influire negativamente sull’interazione, il gioco e lo scambio relazionale tra pari.

Giorgio Matteucci, Il libro nero della scuola

Nel 2003 in USA e UE spopola la Baby University, un programma educativo digitale prodotto da Disney al fine di stimolare la capacità di decodificazione sonora nei neonati sotto i due anni. Nel 2007 un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington e del Seattle Children’s Hospital Research Istituite pubblicano sul Journal of Pediatrics lo studio che ha preso in considerazione un campione di 1.000 neonati “Television and DVD/Video Viewing in children Younger than 2 years”. È emerso che i programmi sulla scia di Baby University danneggiano la capacità di assorbire vocaboli nei neonati dai 2 ai 24 mesi, al contrario della lettura quotidiana ad alta voce di testi e storie, che invece producono abilità linguistiche sorprendenti.

Un altro studio pubblicato su PNAS nel 2003 da Patricia K. KuhnFeng-Ming Tao e Huei-Mei Liu ha indagato la differenza tra un approccio mediato tecnologicamente e dal vivo nella ricezione dei fonemi in età neonatale. Un gruppo di neonati da 9 a 10 mesi è stato sottoposto a 12 lezioni per 4 settimane di cinese mandarino (10 minuti di lettura, 15 minuti di gioco) dal vivo, mentre un secondo gruppo ha seguito lo stesso iter ma mediato da CD e DVD. Nell’ultimo gruppo non sono stati rilevati risultati di apprendimento fonetico.

Un discorso simile è valido anche per la lettura, che oggi, a scuola e non solo, è sempre più mediata dai dispositivi elettronici. Casati descrive il libro cartaceo come “un piccolo ecosistema, una nicchia ecologica in cui convivono simbolicamente un autore e un lettore. Continua elogiando la dimensione spaziale dentro e fuori dal libro. Sfogliare con le mani le pagine, mentre si studia, per ritrovare un contenuto già precedentemente letto, aiuta a memorizzarlo maggiormente. Un simile fenomeno accade quando abbiamo un buon archivio visivo dei libri: “Una buona scaffalatura è come un diagramma, permette di pensare perché rinvia visivamente, in un colpo d’occhio, alla moltitudine di cose lette […]”. Talvolta ci basta guardare un certo scaffale, senza nemmeno aprile i libri, che contiene, per riattivare interi contenuti del nostro apprendimento passato. Ciò non accade nei contenuti digitali, “stracarichi come sono di applicazioni fantasticamente distraenti”. Si salta continuamente da un contenuto all’altro, distratti da numerose immagini statiche o in movimento, si delega la memoria a una macchina. Anche la stesura di temi o appunti cartacei è più efficace per la memorizzazione dei contenuti, dato che la scrittura è personale e si può cambiare carattere, formato e colore in modo autonomo e originale. Inoltre, non solo l’atto di scrivere non è neutrale per l’apprendimento, ma quando la scrittura è in via di acquisizione, il gesto manuale è necessario. Diversi pedagogisti, come ad esempio Irene Bertoglio, ci insegnano che difendere la scrittura a mano non sia una battaglia romantica, ma una lotta per l’acquisizione ideale. Scrivere con il corpo permette di sviluppare, soprattutto nei bambini, la motricità fine, una capacità che va oltre all’ambito calligrafico. Si dice che quando scriviamo è “il cervello che scrive”, dato che gli impulsi nervosi arrivano da quest’ultimo. Per questo la Bertoglio sostiene che il modo e lo strumento usato per scrivere possono contribuire allo strutturare il cervello in modo differente. Digitando una tastiera e scrivendo in stampatello si impedisce il legame e la sequenzialità tra le lettere, segmentando il pensiero, che diventa ad impulsi. Sempre secondo la Bertoglio il corsivo ha, invece, “numerosi vantaggi in termini di capacità personali: favorisce lo sviluppo neurologico, stimola l’attenzione e la concentrazione e potenzia la memorizzazione dei concetti. Non solo: incrementa la capacità di lettura, di calcolo e accresce il pensiero critico”, dato che “è un gesto spontaneo e personalizzato, rispetto all’anonimo e omologante stampatello”.

Risulta evidente, quindi, il ruolo fondamentale della gestualità e della stimolazione tattile, che attiva l’apprendimento cognitivo e mnemonico. Sono numerosi, infatti, gli studi che sottolineano gli scarsi risultati in ambito formativo dell’incremento tecnologico a livello scolastico, come ad esempio lo studio OCSE dell’ottobre 2015 “Collegati per apprendere? Studenti e nuove tecnologie”, che conclude: “In media, negli ultimi dieci anni, i paesi che hanno fatto investimenti significativi nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione dell’istruzione non hanno visto alcun miglioramento notevole nelle prestazioni dei loro studenti in lettura, in matematica e in scienze”. Dunque, come si fa a legittimare acriticamente il matrimonio tra apprendimento scolastico e uso delle tecnologie digitali senza riflettere su studi ed esperimenti accademici, ricerche indipendenti ed esperienze personali che dimostrano la sua inefficienza?


[1] Si veda ad esempio un’importante meta-analisi condotta dalla statistica, epidemiologa, docente universitaria e direttrice dell’unità Molecular and Pharmaco-Epidemiology presso il dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano (IEO) Sara Gandini, la quale, insieme a un team variegato (Maurizio RainisioMaria Luisa IannuzzoFederica BellerbaFrancesco CecconiLuca Scorrano), ha preso in esame i dati ministeriali e della protezione civile del 97% delle scuole italiane, 7 milioni di studenti e 900.000 tra insegnanti e personale ATA. Lo studio, pubblicato su Lancet nel 2021 e ripreso anche sul sito di OMS e dalla rivista scientifica Nature, ha evidenziato che i giovani trovati positivi hanno il 74% in meno di probabilità rispetto agli adulti di favorire la diffusione virale, e che i minori sono il 40% significativamente meno suscettibili al contagio rispetto agli adulti.

Di Red

„Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d'inventare l'avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l'avvenire.“ — Thomas Sankara

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