Le lotte studentesche pro-Palestina dilagano in Usa e in Europa – soprattutto in Francia e Germania, con occupazioni di edifici e campus e conseguenti arresti di massa. Il Primo Maggio ha segnato l’apertura di una nuova fase di lotta con una chiara rivendicazione: «cessare il fuoco»

È stato un Primo Maggio diverso da quelli che siamo abituati a vedere in Europa, specialmente a Berlino e Parigi. L’anno scorso scrivevamo qui di un apice del movimento sociale contro la riforma delle pensioni, fatta passare con forza dal governo Borne telecomandato da Macron. Quasi assenti le rivendicazioni sociali nella manifestazione parigina. La sconfitta dello scorso anno si fa ancora sentire; dal camion della CGT, il maggior sindacato francese, che apriva la manifestazione sindacale, molti sono stati i cori sulle pensioni. Una rivendicazione però serpeggiava tra i 550mila manifestanti nella capitale (2 milioni e 300mila nell’Esagono, da fonti della CGT): «cessare il fuoco» e rimettere in discussione i rapporti diplomatici ed economici con Israele (Israël assassin, Macron complice). E la preoccupazione per l’avvenire della Palestina e dei/delle Palestinesi ostaggio di violenze e fame in quel che resta della striscia di Gaza. 

Anche a Berlino, per tanti anni luogo simbolo delle MayDay europee, il tradizionale corteo del Primo Maggio è stato diverso dal solito. Il corteo pomeridiano che ha attraversato le vie di Kreuzberg e di Neukölln è stato caratterizzato da parole d’ordine molto chiare: «Konzerne entmachten! Kriegstreiber entwaffnen! Kapitalismus zerschlagen!/ Smantellare le Corporation! Disarmare i guerrafondai! Distruggere il capitalismo». I circa 30mila partecipanti (11mila secondo la polizia) hanno continuato a dare spazio alle rivendicazioni per il cessate il fuoco immediato in Palestina trasformando la manifestazione del Primo Maggio in una giornata di mobilitazione per Gaza. Non poteva essere altrimenti, nel contesto di un corteo che ha attraversato le strade del quartiere con la più grande comunità palestinese d’Europa e che è stato il palcoscenico, a partire dal 7 ottobre, di massicce manifestazioni di solidarietà al popolo palestinese brutalmente represse. Ma questo Primo Maggio ha evidenziato diverse vulnerabilità: una partecipazione minore rispetto alle classiche oceaniche “1 Mai Demo” berlinesi (anche a causa dei controversi e assurdi dibattiti interni della sinistra radicale tedesca) e un’incisività ridotta.

Foto della manifestazione di Parigi del primo maggio degli autori dell’articolo

DAI CAMPUS AMERICANI AL PARLAMENTO EUROPEO

L’eccezionalità di questo Primo Maggio si trova nella difficoltà a collocarsi all’interno di un ciclo di mobilitazioni globali per la Palestina. La MayDay statunitense si è di fatto spostata nei campus universitari, spazi privilegiati da questo ciclo di mobilitazioni politiche. First We Take Columbia! Proprio come nel 1968 la mobilitazione nei campus americani è partita dalla rinomata università di New York. Dopo giorni di acampadas fuori dagli edifici universitari il 30 aprile i manifestanti hanno occupato Hamilton Hall chiedendo un immediato disinvestimento degli accordi con Israele e le università israeliane. Le proteste sono state accompagnate dalla violenza della repressione: l’occupazione della Columbia University è stata seguita da un violento sgombero e centinaia di arresti così come nel resto del paese. Tutto pur di non sedersi ad un tavolo ed ascoltare gli studenti (solo alla Brown University studenti e amministrazione sono arrivati a un minimo accordo). Eppure tutto questo ha prodotto un’escalation nel processo di soggettivazione politica nelle università statunitensi. 

Almeno altre undici università sono state assaltate dalla polizia, in alcuni casi dei veri e propri raid coordinati tra polizia e sionisti come è successo all’Università di Los Angeles . Gli arresti tra studenti e professori superano i cento al giorno. Fino a ieri mattina si sono contati circa 142 campus occupati o circondati da accampamenti per la Palestina.

Ma l’attenzione, anche da parte del governo e della polizia, è tutta sulla Columbia che, nella notte del Primo Maggio, è stata nuovamente assaltata con un uso ancora più sproporzionato della forza. Sui proiettili di gomma sparati sugli studenti, che hanno provocato molti feriti anche gravi, si è espresso Rashid Khalidi (professore di Arab studies alla Columbia): «Vergogna sui nostri leader, vergogna sui nostri amministratori, per aver fatto entrare la polizia nel nostro campus. […] Quello che abbiamo vissuto la scorsa notte [mercoledì, nda] in termini di repressione poliziesca è una frazione di ciò che i Palestinesi vivono da 56 anni».

In Francia, la repressione del movimento per la Palestina è stata sin da subito all’opera. All’indomani del 7 ottobre, un professore dell’Università Dauphine (Parigi) è stato bersaglio dell’amministrazione della facoltà e dei suoi colleghi. Pochi giorni dopo due sindacalisti della CGT sono stati convocati dall’antiterrorismo in seguito a un volantinaggio, ricevendo un divieto di manifestazione per la durata di un anno.

Ma la repressione non si ferma ai cancelli delle fabbriche né ai corridoi delle facoltà, e l’uso strumentale dell’accusa di «apologia al terrorismo» diventa arma politica ed elettorale.

Il 30 aprile Mathilde Panot e Rima Hassan, rispettivamente presidente del gruppo parlamentare e candidata alle europee della France Insoumise (LFI), sono state convocate da una commissione antiterrorismo su richiesta del ministro della giustizia. Nel suo comunicato ufficiale, Panot ha ricordato la condanna emessa dalla Corte europea per i diritti umani nel 2022 nei confronti della Francia sull’uso indiscriminato e politico di questa accusa. Ha citato anche il rapporto dell’ONU a tal proposito, che giudicava «l’assimilazione del delitto di apologia a un “giudizio morale favorevole”» come «particolarmente preoccupante» per le libertà politiche e di espressione nell’Esagono. Panot ha menzionato anche i diversi casi di repressione e abusi di potere che hanno leso in più occasioni il diritto di espressione e riunione pubblica, concludendo che si tratti di «una giuridicizzazione della vita politica e democratica».

Numerosi sono stati i dibattiti pubblici e le conferenze universitarie annullati dalle amministrazioni comunali, le presidenze di facoltà e i prefetti. Il caso più eclatante è stato il divieto imposto dal comune di Parigi per l’incontro «Contro l’antisemitismo, la sua strumentalizzazione e per la pace rivoluzionaria in Palestina» organizzato dall’Unione ebraica francese per la pace, il collettivo «ebraico decoloniale» Tsdek!, Révolution permanente e l’azione antifascista Paris-Banlieue previsto il 6 dicembre scorso. Avrebbero dovuto prendere la parola Houria Bouteldja (tradotta in Italia da Deriveapprodi), Angela Davis e Judith Butler. Quest’ultima si è detta «sconcertata dagli eventi» in una tribuna ospitata da Médiapart. L’amministrazione parigina aveva ripiegato spiegando il suo divieto sulla base della presenza di Bouteldja. Ironia della sorte, la Normale di Parigi ha annullato, con un comunicato del 5 marzo, il ciclo di conferenza di Butler su «Le temporalità del lutto nel presente».

Stessa sorte è capitata anche per diversi incontri elettorali di France Insoumise; quando gli appuntamenti per la campagna elettorale europea non sono stati vietati, come è successo a Bezons martedì scorso, gruppi di estrema destra e sionisti armati hanno attaccato i partecipanti all’ingresso e seguito i candidati insoumis sui mezzi di trasporto.

Nel frattempo, dopo la notizia dell’arresto di Caroline Fohlin, professoressa di economia alla Emory University (Atlanta) lo scorso 25 aprile, il movimento per la Palestina si è riorganizzato nelle università adottando la strategia delle occupazioni e degli accampamenti. Questo lunedì la polizia è entrata nella Sorbona arrestando diversi studenti accampati nell’atrio e distruggendo le tende. Scontri anche a Sciences Po, dove la comunità accademica è divisa e molti professori appoggiano la mobilitazione studentesca. In questo caso, Valérie Pécresse ha annunciato su X (ex-Twitter) la decisione di «sospendere tutti i finanziamenti della Regione [Ile-de-France] alla facoltà finché la serenità e la sicurezza non saranno ristabiliti nell’istituto». Decisione che potrebbe sembrare strana, visto che le violenze sono scaturite da un assalto organizzato da neofascisti e sionisti, sempre armati. È sempre Pécresse, presidente della regione parigina, che toglie gli ultimi dubbi: il problema sarebbe «una minoranza di radicalizzati che fanno appello all’odio antisemita e che sono strumentalizzati da France Insoumise e dai suoi alleati islamo-gauchistes». Cioè la «sinistra islamista», esattamente il termine usato da Le Pen e i neofascisti.

All’indomani del Primo Maggio, una delle sedi della Normale è stata occupata, seguita da un accampamento a place de la Sorbonne. Sotto gli occhi di tutti, la strategia sembrava essere più calma rispetto a quella adottata in occasioni precedenti. Ma i lacrimogeni e i gas sulle tende non sono bastati e la polizia ha caricato. Sul luogo si è recata Rima Hassan, come avevano fatto nei giorni precedenti altri parlamentari insoumis, per impedire ulteriori violenze e arresti. A partire dal 2 maggio, diversi anche i licei mobilitati nella regione parigina e le università coinvolte da blocchi e occupazioni (Lilla, Lione).

I divieti e gli sgomberi violenti visti negli ultimi giorni in Francia e negli States sono da anni la normalità in Germania , dove il movimento in solidiarietà alla causa palestinese è da sempre oggetto di attenzioni speciali da parte delle autorità e viene silenziato tramite accuse strumentali di antisemitismo che scattano automaticamente in caso di proteste pro-Palestina. Famosa la messa al bando dello slogan “From the river to the sea” in 16 regioni tedesche a partire dal novembre 2023.

La polizia nei campus si era già vista a inizio dicembre durante lo sgombero della Freie Universität (Berlino) – qui la lettera con le rivendicazioni studentesche all’indomani dello sgombero motivato tramite un supposto antisemitismo degli studenti. Ma l’escalation di violenze non ha fatto altro che crescere nel corso dei mesi, fino ad arrivare al brutale sgombero di una settimana fa della acampada per la Palestina davanti al Bundestag: 150 agenti dispiegati per sgomberare 19 tende. «Non abbiamo avuto un motivo specifico per sgomberare la tendopoli delle organizzazioni pro-palestinesi davanti al Bundestag. Si è trattato di una serie di violazioni di legge». Queste le parole del portavoce della polizia che tra i reati contestati segnala il mancato rispetto delle regole sul verde pubblico e l’immancabile incitamento all’odio antisemita. 

La censura delle voci a sostegno della causa palestinese è persistente e logorante, tanto da impedire alla filosofa Nancy Fraser di mantenere la cattedra Albert Magnus presso l’Università di Colonia, semplicemente perché ha firmato un appello a favore della Palestina. Nemmeno una lunga lettera firmata da diversi importanti esponenti del mondo accademico tedesco è stata efficace per contrastare il pericolo rappresentato da questi episodi di censura e limitazione della libertà di espressione. Un fenomeno che non si limita al mondo accademico ma che abbraccia l’intera società tedesca, come ci testimonia la violenta repressione del Palästina Kongress a Berlino, organizzata tra gli altri dal collettivo Jewish Voice for a just peace in Middle East lo scorso 14 aprile. La polizia ha interrotto i lavori del congresso dopo poche ore dal suo inizio per una supposta «propaganda d’odio e di messaggi antisemiti». Un’operazione di polizia su vasta scala, che ha visto vietare anche all’ex-ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis di svolgere un breve intervento video durante il congresso e, tramite un  Betätigungsversbot, di svolgere qualsiasi intervento pubblico in Germania. L’amministrazione berlinese, nelle vesti del sindaco Kai Wegner, ha applaudito all’intervento della polizia, sottolineando su X come «Wir haben klar gemacht, dass Israel-Hass in Berlin kein Platz hat. Wer sich nicht daran hält, wird die Konsequenzen spüren/ Abbiamo chiarito che l’odio per Israele non ha posto a Berlino. E chiunque non si attenga a queste regole ne subirà le conseguenze».

Foto della manifestazione di Parigi del primo maggio degli autori dell’articolo

EFFETTO DI CENSURA E ASSIOMATICA DI CAPITALE

I vari casi –– tedesco, francese, statunitense –– mostrano come il genocidio perpetrato in Palestina sia un’occasione per regolare i conti interni ai differenti stati-nazione laddove la tenuta dello spazio politico e l’egemonia delle forze neoliberali è sempre più messa in discussione. 

In Germania, ancora una volta, l’intero arco parlamentare tedesco si è dimostrato incapace di comprendere quello che realmente sta accadendo in Medio Oriente, accecato dal senso di colpa tedesco. La repressione del movimento per la Palestina conferma l’incapacità delle forze politiche tedesche, in particolare di quelle della cosiddetta sinistra, di articolare un discorso in grado di parlare di giustizia e della lotta per ottenerla. Tutto questo mentre partiti populisti di estrema destra come AFD, nonostante programmino la deportazione sistemica di cittadini extracomunitari e vengano apertamente finanziati dal Cremlino, continuano a guadagnare consensi in tutta la Germania.

Negli Stati Uniti, come ha spiegato Francesco Raparelli in un precedente articolo, la repressione del dibattito pubblico e le violenze sui movimenti per la Palestina ha rotto il difficile legame tra Partito Democratico e movimenti che la stagione di Black Lives Matter aveva pazientemente costruito, politicizzando da sinistra e all’insegna dell’intersezionalità l’opposizione di massa al regime trumpiano. Ma ci testimonia soprattutto dell’immagine di un paese fortemente politicizzato, attraversato da un conflitto di classe feroce che prende forme di volta in volta diverse. Questa volta nei campus, dove i giovani studenti e le giovani studentesse sembrano aver fatto tesoro delle lezioni di BLM e della George Floyd Rebellion e iniziano a difendere le zone autonome liberate con barricate e scudi rinforzati.

La situazione francese è diversa, ma l’uso della questione palestinese rimane strumentale. Se l’«apologia del terrorismo» agevola la criminalizzazione del movimento e quindi la legittimazione di un’escalation nell’uso della forza, questo ha delle ricadute dirette e concrete anche sugli spazi di agibilità politica per i corpi intermedi e l’attraversamento da sinistra delle istituzioni repubblicane. Gli spazi normalmente attraversati da discorsi e soggettivazioni politiche (facoltà, piazze, strade, luoghi di lavoro) sono resi quasi incalpestabili, mentre i parlamentari e i candidati di opposizione sono sistematicamente derisi e bacchettati in televisione. Quando non accade, e dei giornalisti cercano di dar loro voce, sono ripresi pubblicamente. È il caso di Guillaume Meurice, umorista e giornalista di punta dell’emissione radiotelevisiva FranceInter, convocato negli ultimi giorni per un possibile licenziamento. Umiliare, cancellare, reprimere. All’indomani del divieto della conferenza sull’antisemitismo e la pace rivoluzionaria in Palestina, Simon Blin, giornalista di “Libération”, si chiedeva se non si trattasse di «un nuovo caso di cancel culture».

Dopo questi mesi, più che una provocazione, era una buona previsione: più che ai movimenti antirazzisti e transfemministi, sembra che cancel culture si addica proprio alla nuova strategia di comando adottata dalle maggiori potenze a livello globale.

Gli stessi sdoganatori di questo lessico nato dalla variante trumpiana della stagione populista (woke, un altro loro capolavoro) adesso fanno largo uso del suo significato. Il significante è sempre lì, si badi, a delegittimare i loro avversari. La strategia cancel culture arriva al momento opportuno e si innesta come terzo tempo rispetto ai processi egemonici precedenti. Se il neoliberalismo aveva egemonizzato e attirato le socialdemocrazie europee, la stagione populista ha rinforzato il corpus neoliberalis con varie file assoldate direttamente da pezzi della sinistra “radicale”. Questa volta però non si tratta di costruire un’egemonia neoliberale, ma di difenderla.

I movimenti degli ultimi anni –– Black Lives Matter, movimento sociale in Francia, il 25 aprile di quest’anno e la bella iniziativa de “Il Manifesto” –– mostrano l’esistenza di qualcosa a sinistra di difficile sussunzione. Si tratta di movimenti politici, sociali e culturali di cui sono protagonisti pezzi interi dei flussi di classe, razza e genere non ancora integrati nell’assiomatica capitalistica. Qui emerge il senso della paura di un nuovo 1968, agitato da destra, dapprima negli Stati Uniti e ultimamente in Europa. Allora soggettività nuove erano sul punto di emergere in seno alla classe operaia e alle società occidentali e il movimento di Berkeley diede il via a quella stagione di lotta innestandosi sul movimento globale per la pace e per la liberazione anticoloniale.

Oggi la Palestina appare sempre più non integrabile nello scacchiere internazionale, mettendo al tempo stesso in luce la crisi delle istituzioni politiche e giuridiche internazionali e globali e la cieca violenza di ogni etnonazionalismo messianico. L’esplosione di violenza poliziesca e di repressione sui luoghi di lavoro, sapere e vita può essere spiegata in funzione di questa difficoltà e crisi dell’assiomatica capitalista. Significa che qui possono essere costruite nuove alleanze e nuove strategie in una politica delle connessioni.

Ritroviamo in fondo la lezione di Mille piani di Deleuze e Guattari: «Per quanto modesta essa sia, una rivendicazione presenta sempre un punto che l’assiomatica non tollera, quando gli individui esigono di porre da soli i loro problemi e di determinare almeno le condizioni particolari in cui tali problemi potranno ricevere una soluzione più generale». Cessate il fuoco è una di queste rivendicazioni e nella sua interezza è intollerabile per l’attuale assetto europeo e globale. Il problema da pensare e su cui puntare non sono ora le cariche fuori dalle facoltà o i proiettili di gomma sui campus americani. Vero, fanno male. Ma quel che è importante strategicamente sono gli effetti. Come i corpi dei parlamentari di France Insoumise che si frappongono, in Francia, tra i corpi armati e incappucciati della celere e gli studenti nelle tende davanti alle università. O i professori della Columbia che raggiungono gli studenti in mobilitazione, come ha spiegato Bruce Robbins, professore di inglese: «una delle cose che hanno fatto i docenti che hanno sostenuto l’accampamento è stata portare i loro corsi all’interno dell’accampamento». 

Nuove connessioni sono quindi possibili per ripensare, dalla nostra prospettiva, qui in Europa, il nostro contributo a un nuovo internazionalismo. Cessare il fuocode-escalation delle violenze israeliane sui civili e sul territorio palestinese; richieste che non possono che andare verso un’escalation di rivendicazioni politiche e sociali, istituzionali e culturali che emergeranno da nuove linee di soggettivazione politica tra genere, razza e classe. Questo è un problema e le risposte verranno dalla capacità di porlo collettivamente. Da qui le difficoltà emerse in questi mesi e che il Primo Maggio indica sintomaticamente, da diverse prospettive e con diversi scenari, tra Parigi e Berlino. È il segnale che lo spazio minimo per (pro)porre un tale problema sono l’Europa e la sua autonomia.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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